Ambrogio Lorenzetti Allegory of Good Govt

Sembrava che quel blues suonasse solo per lui: per raccomandargli di essere libero, un giorno

A. Lorenzetti, Allegoria del buon governo 

Ho fatto un sogno. Nel brusio dei bicchieri di un bar, con la macchina del caffè che sbuffava e colava il suo oro nero, gli astanti con le custodie dei loro segreti ben sigillate dalla normalità del mattino, ho fatto un sogno. Non era quel sogno a occhi aperti di quando ci ingiuriano poeti e noi come principi dei nembi ce ne andiamo mortificati, con le grandi ali bianche che strofinano a terra e ci fanno goffi ma tuttavia speranzosi di saperle aprire come gli albatri baudelaireiani. Non era neppure il solito sogno della notte codificato dal battere rapido delle palpebre su e giù su e giù su e giù, manco fossero tasti della macchina per scrivere su cui un dio in cerca di editore batterebbe le dita ingiallite dal trascorrere del tempo, ammesso che dio abbia le mani. Era invece un sogno lucido. E vivido. Per l'esattezza, un sogno reale dal quale ci si risveglia solo per prendere consapevolezza di qualcosa che sapevamo già. Come quando lui lascia lei e glielo riferisce con tono teatrale ed enfatico: ti amo troppo per starci ancora. E lei lì per lì, solo per un istante, ci crede. Nel subbuglio di idee ferite a morte che vagano nella sua mente in cerca di un appiglio, ecco che trova infine lo spazio giusto, la feritoia dove il dolore si rifugia, lo sgabuzzino dove trova gli abiti per travestirsi: quando torna al mondo, quel dolore lo chiamiamo con un altro nome. Esperienza.

Non era tutto questo. E nemmeno il politicamente corretto "I have a dream" segnato come errore dal capitalismo vincente e riscritto dalla storia dei padroni col titolo "It was just an utopia". Io invece ho visto quel sogno. L'ho visto mentre la filodiffusione mandava un blues nero come i cani che latrano ai bordi della notte. E ho visto una mamma che insegnava a sillabare le parole al suo bimbo. Sembrava che quel blues suonasse solo per lui: per raccomandargli di essere libero, un giorno. Ho sognato il futuro di quel bimbo: era qui, da noi. Ho sognato che era rimasto per scelta. Non per necessità. Ho sognato che qui, se proprio vogliamo, di scuse per restare ne abbiamo parecchie. Ah ecco, questo sì che sarebbe stato il titolo giusto del mio sogno: ancora una scusa per restare. Ma, ahimè, l'aveva già usato Katia Colica, una delle scrittrici più ispirate e intense del nostro sud. Ho sognato che qualcuno puntava i piedi e diceva basta. Così, di colpo, tutte le formine dentro cui colavano le speranze delle persone che vivono in questo pezzo d'Italia, dimenticata e in via di spopolamento, tornavano a sfornare idee semplici ma non semplicistiche. Idee che hanno a che vedere con la vita qui. La vita qui e ora. Con quel bambino che sorride alla mamma come per dirle che da grande sarà libero di scegliere. Mi piaceva quella scena perché era rassicurante. Sai, ti svegli un giorno e vedi che la tua città è un luogo per costruttori di sogni. Non più per studenti in fuga. Ma di studenti che sognano sogni lucidi. E vividi. Sognano parchi. Sognano di correrci gratis. Senza incubi di scuole calcio. Sognano i palazzi con le facciate colorate. E sognano la gentilezza dei passanti. La città sognata è dove c'è spazio pure per la bellezza architettonica. E per quella urbanistica. Magari pure per quella filosofica. Ho visto pensatori che pensavano come farci vivere bene. Sembrava un sogno uscito dalla fase Rem del pittore Ambrogio Lorenzetti, quello dell'Allegoria del buon governo. Mi sono svegliato dal mio sogno vivido quando il cassiere ha preso i soldi del mio oro nero e mi ha dato il resto con incuranza del mancato scontrino. Sono uscito in strada mentre una signora s'improvvisava lanciatrice d'immondizia. Mentre schivavo il sacchetto pensavo a come ci hanno fabbricati. Siamo soli nelle case con le scatole di odio da digitazione. Noi e il nostro particulare. Noi e i nostri rifiuti. Noi e le nostre solitudini. Noi e le nostre competenze momentanee: commissari tecnici, presidenti del consiglio, oncologi, psicanalisti, consiglieri, tuttologi raffinati e cuochi fotografi. Talvolta anche padri. Anche madri. E le scuole? Contenitori di demotivazione e di competitività dentro cui si muovono adolescenti che noi adulti abbiamo smesso di educare. E non capiamo perché. Ce lo ricordiamo solo quando qualcuno si sente in dovere di picchiare il prof malcapitato. Ma lo sappiamo, lo sapevamo. Perché non ci siamo interessati prima di menare? Ah, certo: eravamo troppo indaffarati a postare qualche tramonto dalle postazioni delle celle cibernetiche. Oppure troppo preoccupati di redarguire qualche amante troppo distante. Oppure eravamo troppo presi dallo stalkerare ex fidanzati ormai canuti ma con l'ansia da prestazione delle dita che si accaniscono sullo smartphone. O, ancora, troppo attenti a voler sembrare alla moda mentre contendiamo il jeans sdrucito e attillato al ragazzino efebico gomito a gomito. Insomma, tutti miscugli esplosivi. Basta una scintilla innescata da qualche assurdo programma ministeriale chilometrico e ossessivamente cronologico e il gioco è fatto. Togliere senso alla realtà conoscitiva e degradarla a stupidario mnemonico: come? Semplice! Verificando che le competenze, i voti, le minacce siano uguali per tutti. Docenti, studenti e genitori. A ciascuno il suo.

Suonerà nostalgico ripensare ai soliti nostri tempi. Lo so: è da sciocchi rivivere il passato perché la distanza lo rende perfetto e memorabile. C'è un tarlo che però si insinua nel pensiero: il rione era tutto. Era pratica di vita, spazio goliardico dove sfogare istinti ludici, grembo materno che ci proteggeva dal resto della città, come ci proteggeva il richiamo rassicurante delle mamme quando la sera spegneva gli spasimi del divertimento. Si imparava la vita senza saperlo. Adesso, nel fragore muto della Rete, nel rifugio roboante dei social, tra haters e santoni, tra guru e maniaci, stiamo disimparando tutti noi: ho fatto un sogno. Qualcuno un giorno ci chiuderà in un sarcofago. Saremo cavie piene di elettrodi e di fibre ultraveloci. Morti connessi. Commessi viaggiatori immobili in quel buio. Mummie in vita che riprodurranno col pensiero altre vite. Altre olografie. Saremo finalmente uno, nessuno e centomila. Ho sognato tutto questo futuro. Ma di tutto questo futuro sognato ricordo perfettamente soprattutto il suono della voce di quel bimbo mentre chiamava la mamma. Era il suono di un blues. Era il suono di un sogno che viene da un passato lontano. Che lascia sperare ancora in un futuro a portata di mano.