Poche ore di pioggia e Reggio finisce sott'acqua. Perche?
Lunedì sei novembre, quasi inaspettatamente, un diluvio si è abbattuto sulla povera città di Reggio. Ho detto “diluvio” anche se non è durato quaranta giorni ininterrottamente, ma non ho alcuna voglia di usare l’italiano giornalistico, che mi avrebbe imposto di usare l’espressione “bomba d’acqua”. Che ci volete fare? Io non riesco ad americanizzarmi, per quanto impegno io profonda in questa “mutazione genetica”, indispensabile per vivere nell’era del politically correct e dello storytelling, che, ovviamente, io chiamo “terza sofistica”.
Come che sia, lunedì sei novembre si sono aperte le cataratte del cielo, e Reggio è finita sott’acqua, nello stupore dei vari cittadini, che si sono visti allagare strade e garage, piazze e seminterrati. Quello che ha colpito me, però, è stato lo stupore e la meraviglia dei miei concittadini, immemori delle più elementari lezioni della Storia di Reggio. Ma andiamo con ordine …
Generalizzando e semplificando, noi abbiamo constatato che si è allagata l’area della ex Stazione Lido e dell’inizio della Via Marina. Analogamente, abbiamo avuto un fiume in piena nelle strade che da Sant’Anna arrivano al Duomo, passando per il Crocefisso. Ultimo, ma non meno importante, l’intera area di Viale Calabria è finita sott’acqua, arrecando danni ad automobili e abitazioni. Con un occhio alla Storia, mentre ascoltavo i racconti dei malcapitati e davo uno sguardo all’implacabile Grande Fratello dei social media (tutto ciò che è inglese è sbagliato, recita la mia “Legge di Harold Mattingly”), mi sono convinto che tutto quello che è successo era ampiamente prevedibile. Di fatto, la fiumara Annunziata, cementificata e intubata, e con la foce troppo stretta e troppo intasata, ha ripreso il suo vecchio alveo. La stessa cosa ha fatto il Calopinace, che, in seguito a un appalto del 1547, copiato da ciò che avevano fatto i Messinesi con il torrente Boccetta, è stato spostato dal suo alveo naturale, che passava per via Magna Grecia e limitrofe. Tale appalto, che ci ha lasciato un enorme argine di terra all’altezza di Sant’Anna, tentava di ricavare lo spazio per permettere la costruzione del Castel Nuovo, che avrebbe dovuto proteggere il formidabile porto di Reggio, vera ricchezza della città. Ma il progettista, tal Nicolò Ballante, napoletano, sbagliò i suoi calcoli e già nel 1556 i lavori dovettero essere interrotti: lo spostamento del Calopinace stava erodendo Punta Calamizzi, che, difatti, sprofondò nel 1562, distruggendo l’economia della città. Il Potere del tempo, con una operazione di storytelling degna dell’insipiente classe dirigente odierna, decretò che si fosse trattato di un bradisismo (che forse ebbe effettivamente una parte), ma il Calopinace si spostò naturalmente più vicino al suo alveo antico, almeno alla sua foce, ma rimase incatenato a quello nuovo nella parte alta, a causa dell’argine monumentale (su cui i Reggini hanno costruito centinaia di case!). Per la terza area bisogna ricordare che Sbarre e Gebbione sono sterili dal punto di vista archeologico. L’unica spiegazione plausibile a questa assenza di frequentazione antropica è che si sia trattata di una zona paludosa e malsana nell’età antica, fino a quando tutta l’area fu affidata a nuovi coloni (io sospetto che fossero immigrati di origine musulmana, ma ne parleremo un’altra volta), che riuscirono a bonificare la terra, con un sistema che regge, almeno fino all’arrivo di rovesci di intensità superiore al normale …