"La Terra Rossa" di Santo Gioffrè è un romanzo deliberatamente schierato dalla parte delle donne
Il romanzo “La Terra Rossa” dello scrittore calabrese Santo Gioffrè edito qualche anno fa edito da Rubbettino è un romanzo apertamente e deliberatamente schierato dalla parte delle donne.
Il critico letterario Pasquino Crupi nel breve commento al romanzo, tra i tanti inseriti all’interno del trattato, “La ’ndrangheta nella letteratura Calabrese”, ha ritenuto che la tematica fondamentale dello scritto fosse quella di raffigurare la società malavitosa calabrese all’inizio degli anni cinquanta, imperniata sulle “catriche” e sulla sopraffazione atavica esistente nelle province del Sud Italia tra gli “gnuri” ed i contadini. Ovviamente l’analisi dell’illustre studioso appare pregevole, tuttavia, le vicende della ’ndrangheta restano sullo sfondo dello scritto di Santo Gioffrè. Seppure il personaggio principale dell’opera narrativa è l’uomo, il ricco possidente Don Ciccio D’Alessandro, la vera eroina è l’umile Carmela, la donna, serva, quasi schiava, della quale il benestante padrone si serve per esprimere la propria sensualità superficiale e permeata da clichè di stampo maschilista.
L’intera storia è intessuta del rapporto subalterno tra Don Ciccio e Carmela: della progressiva deriva dell’uomo che, piuttosto che procedere verso l’elevazione spirituale, pur avendone mezzi e ingegno, si proietta scientemente verso gli inferi della totale abiezione morale. Trattando Carmela da oggetto sessuale impedisce a sé stesso di godere della paternità che la donna, suo malgrado, gli procura, e alleandosi segretamente con i membri di quel folto sottobosco criminale costituito dalla nascente organizzazione mafiosa, diviene un colluso, un fiancheggiatore doppiamente responsabile e perciò stesso doppiamente spregevole. Don Ciccio e’un personaggio irrisolto, un immaturo diremmo oggi, un ignavo che, pur percependo lucidamente la realtà infima del luogo in cui vive, non sceglie la vita, come dovrebbe secondo coscienza e secondo l’educazione ricevuta: sceglie, nel privato, di appartenere all’oscurità dei rapporti non svelati, alla quiete umiliante dell’accoppiamento senza emozioni e - nella vita pubblica - di aderire ad una classe sociale ignava e immobile, quella della borghesia terriera meridionale. E’ un “parassita” al pari di quei borghesi individuati già in precedenza da Antonio Gramsci in un famoso scritto del dicembre 1919, che anziché ripudiare la delinquenza emergente ne legittima l’espandersi, consentendo il rafforzamento di una cultura a tutt’oggi persistente nella realtà calabrese.
A distanza di decenni, e con i notevolissimi studi sociologici che si sono susseguiti sul fenomeno mafioso, possiamo dire che la delinquenza rurale degli anni ’50, quella dei guardiani e dei “fatturi” non sarebbe diventata la potente organizzazione a struttura familistica che osserviamo oggi, se vi fossero stati potenti freni di carattere sociale a fermarla. Misure di salvaguardia che solo la borghesia “istruita” poteva adottare e che probabilmente, per non perdere il prestigio effimero di cui godeva, essa stessa non ha avuto il coraggio di porre in essere. Ma il libro, se tratteggia abilmente i meccanismi del sorgere e dell’affermarsi dei predomini mafiosi, manifesta anche il rapporto di forza tra un padre ed un figlio, il primo che rifiuta di assumersi la paternità per ragioni di convenienza, ed il secondo che la disconosce in quanto derivata dalla sottomissione tra la mantenuta Carmela ed il dottore. Dunque ad avere la meglio sarà il giovane “mulo”, che si erge, già nel tragico incipit, ad autentico vendicatore di tutte le donne abusate, manifestando per tale via il pensiero dell’autore: quello di porsi a fianco degli sfruttati e delle donne ingiustamente sottomesse.