"C'è ancora un paese che soffre, ma che resiste e lotta"
C’era una volta l’Afghanistan, c’era una volta un Paese da “salvare” che occupava le prime pagine dei nostri giornali e i titoli d’apertura dei nostri tg, ma che adesso sembra quasi appartenere ad un passato lontano.
C’era una volta l’Afghanistan, o meglio, c’è ancora un Paese che soffre, ma che resiste e lotta per la giustizia, per la libertà e per l’uguaglianza, e di cui oggi sappiamo ben poco.
Ed è il libro di Cristiana Cella, Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul (Città del Sole, 2017), presentato recentemente a Milano, ad avere il grande merito di riaccendere i riflettori su un Paese ormai dimenticato. Un libro che non è solo un romanzo, ma una viva testimonianza di ciò che significa essere donna in Afghanistan; basti pensare che, nell’indice di diseguaglianza di genere delle Nazioni Unite, il Paese occupa il 147° posto su 148.
Nonostante i continui conflitti armati, sono le donne a morire di più e prima degli uomini, la loro aspettativa di vita è di soli 44 anni. Una vita ad alto rischio per la maggior parte di loro che non ha accesso ai diritti fondamentali: istruzione, giustizia e assistenza sanitaria. Il 40% delle donne, tra i 15 e i 49 anni, muore per complicazioni legate alla gravidanza e al parto, rendendo l’Afghanistan il secondo Paese al mondo per mortalità materna e infantile.
La vita delle donne afghane è accompagnata quotidianamente dalla violenza, nelle sue diverse forme. L’87,2% ha subìto almeno una forma di violenza, il 62% più di un tipo.
Anche la pratica dei matrimoni forzati (magari con un uomo vecchio, pazzo, malato, tossicodipendente, violento o stupratore, a nessuno importa) è ancora oggi molto diffusa, la percentuale si aggira tra il 60-80%, a seconda delle zone.
Dietro questi numeri, però, si nascondono storie di vita vera, di donne vere, alcune delle quali decidono di resistere, mentre in molte si arrendono. I suicidi, soprattutto con il fuoco, spontanei o forzati, sono più di 2.300 ogni anno.
Ogni donna, in Afghanistan, è costretta a combattere la sua tremenda battaglia quotidiana, molto spesso segreta. Ad alcune di loro come Shirin, protagonista di questo romanzo, avvocata presso il Centro Legale di Hawca, capita di sceglierlo, di decidere di lottare non solo per se stesse, ma per proteggere con ogni mezzo i diritti e la vita delle altre. Non è solo un lavoro il loro, ma una sfida ad alto rischio; alcune cedono alle minacce, altre continuano finché qualcuno non le fermerà.
Una vita, quella di Shirin, che si incrocia spesso con quella di altre donne come Roshan, Farzana, Maleya, Karima, Naziki, Yasmina, Zohra, protagoniste anch’esse di Sotto un cielo di stoffa. Donne reali, nascoste dietro nomi di finzione, che combattono per la propria libertà nel nostro stesso tempo, in uno spazio lontano. Storie troppo spesso dimenticate o ignorate, che oggi rivivono tra le pagine di questo libro e arrivano a noi grazie alla penna di Cristiana Cella: «Il dolore della altre t’invade, a volte ti soffoca. Ha un colore, un suono, un odore. Raccogli. Tutti i giorni. Raccogli gesti, parole, sguardi, paura. Rimane tutto dentro, si deposita. Ci vuole molto lavoro per elaborarlo. Ma sempre qualcosa rimane, diventa carne e sangue, trasforma… Ci sono giorni in cui tutto sembra inutile, in cui si vorrebbe sapere perché non si riesce ad agire. A volte arriva quella debolezza oscura, infida, una stanchezza infinita che ti trasporta lontano. Le cose, le persone, perdono densità, si sfumano, si scolorano. Rimane un unico desiderio, lasciare, scappare. Potrei farlo, certo, potrei sentirmi libera e leggera, scaricare i pesi a qualcun altro. Ma a chi? Non sapere cosa succede qui è una strada che non c’è più. Non fare niente per cambiare inaridisce, consuma. Fa morire una parte di te. Si torna sempre lì, alla scelta che abbiamo fatto. La fiducia, la forza, fanno parte di quel momento. E tornano. Non sono sola. Siamo rami di uno stesso albero. Ognuna di noi ha bisogno delle altre. A volta basta un abbraccio. E tutto ricomincia».
All’interno del volume, arricchito anche da un album fotografico, sono raccolte inoltre alcune testimonianze dirette, come quella di Malalai Joya eletta come membro del parlamento afghano dalla provincia di Farah, la quale ha pubblicamente denunciato la presenza in parlamento di persone da lei definite “signori e criminali di guerra”: «Spesso mi chiedono di andarmene, per qualche mese, quando la situazione è troppo rischiosa. Ma ormai lo sanno, dico sempre di no. Non lascerò mai l’Afghanistan. Affronterò le difficoltà come qualunque altro afghano».