Mi allenavo ore ed ore a farla roteare, sperando nella creazione di un varco spazio-temporale che mi portasse ad Asgard
Nulla è più importante del gioco. Anzi, a ben pensarci, l’intera esistenza è solo un grande, smisurato, divertente e alla fine anche tragico gioco. Un gioco è la politica, gioco è la religione, l’amore, le arti, l’economia, la scienza. Uno spasso creativo, da prendere con la giusta dose di sorrisi e di pianti, accettando sconfitte e vittorie con il distacco del giocatore consapevole dell’arbitro che fischia la fine e il divertimento finisce.
Sono i bambini gli esseri più ragionevoli di questo pazzo mondo. E sono dei mostri quei genitori che cercano di trasformarli in mini-uomini, con quegli schifosissimi corsi di apprendimento dell’una e dell’altra cosa. Ai bambini dovrebbe invece essere concessa la grande possibilità che noi avevamo: quella di rompersi le palle per la noia; e quindi d’industriarsi per sfuggirle. Giocare, appunto. Creare entusiasmo partendo dal nulla. O dal poco che si ha. Prendere spunto da una storia, da un sogno, da un desiderio, anche da una mancanza, ed inventare. Creare mondi. Farsi demiurghi.
Primi anni ’70. Per noi maschietti esistevano due grandi tipologie di giochi: quelli in solitario erano utilissimi, una specie di allenamento. E poi i giochi con gli altri, dove si realizzavano le grandi fantasie elaborate precedentemente. Il gancio tra i due mondi erano i soldatini. Le figurine di plastica rozzamente intagliate (io preferivo quelli in scala 1.32) di militari con mitra, fucili, bazooka, bombe a mano, oppure di cow-boy e indiani. La marca più diffusa era Atlantic, che li produceva anche in scala 1:100 ma che noi odiavamo perché erano spersonalizzati. Andavano benissimo quelli comprati dal rigattiere un tanto al chilo, molto più grezzi, colorati in modo uniforme. Ne avevo uno tutto rosso, un pistolero a due mani, che in genere usavo con le funzioni di capo. Avevo anche un indiano che scrutava l’orizzonte con la mano a proteggersi dal sole. Anche lui era uno dei capi. Poi a natale del 1972 mi regalarono un pacco con i soldati russi, ed uscirono Lenin, Stalin e un milite con la bandiera con la falce e martello (l’unico che ancora possiedo). I due politici però non mi erano utili, e li costringevo a stare sempre nelle retrovie, disarmati com’erano. Gran parte del tempo del gioco con i soldatini era passato a curare l’aspetto organizzativo. Scegliere il campo di battaglia, generalmente una stanza intera svuotata dagli adulti scemi che disattenti passavano urtandoli e scombinando nidi di mitragliatrice e postazioni di mortai, e piazzare i due eserciti con equilibrio. Io ci impiegavo ore. Poi lo scontro durava pochi minuti, anche perché il tempo era finito e dovevo cenare o fare qualche noiosissima cosa con i grandi. Facevo bene attenzione a non mischiare soldati incoerenti con l’epoca storica. Se era seconda guerra mondiale, non c’erano né cavalli né indiani. Se era Far West non c’erano carri armati.
Ma il vero genio si esprimeva nelle varianti artigianali. Che tutti applicavamo ai nostri giochi. Io avevo costruito il carrarmato invincibile. Con l’immancabile Vinavil, la colla che ha modificato le sorti del mondo, avevo rialzato la torretta, attaccato un paio di cannoni laterali, che erano un po’ sghembi ma andava bene comunque, una postazione di mitraglieri in coda, e rinforzato i cingoli con la carta argentata del cioccolato carrarmato, che secondo me si chiamava così apposta.
Altro gioco preferito era la cattura, il processo sommario e poi la pena capitale per le bambole delle mie sorelle. La pena preferita era l’impiccagione, anche se qualche volta provai a darne fuoco a qualcuna, ma se armeggiavo con i fiammiferi erano botte quindi mi limitavo a legarle al palo e accumulare fascine ai loro piedi. Secondo me le bambole erano sceme. Ed anche tutta quella paccottiglia con cui giocavano alcuni miei amici, tipo Big Jim o Ken, cose davvero da cervello zero. Vestirli, schiacciare il pulsantino dietro per un singolo colpo di karate. Giocare con questi bambolotti per me era mostruoso. Io avevo bisogno di scenari collettivi, di grande imprese eroiche, di campi da battaglia dove alla fine i morti si contavano a centinaia. Così era anche più facili raccoglierli. Ero serio nel gioco, mica scherzavo.
Ma la vera fantasia si esprimeva fuori, con gli altri. Nei giochi con le bande di coetanei. Tutti squattrinati, con le stesse possibilità. Era un fiorire di armi, gran parte innocue, ma uniche. Bastava un pezzo di legno, uno spago, la solita Vinavil, della carta d’alluminio (carta argentata la chiamavamo) e nascevano mitra, spade, archi, coltelli di ogni foggia. Bastava sfregare il legno contro i muri esterni delle case e dargli forma. Poi disegnarlo, colorarlo, e l’invincibile arma era pronta. Erano vietatissime le fionde e gli archi. In ogni rione c’era qualche ragazzo che era stato ferito all’occhio da un proiettile, e veniva indicato come esempio. Ma eravamo in tanti ad infrangere questo tabù. Bastava lasciare l’arma proibita in un luogo sicuro fuori casa. Tutti avevamo dei luoghi sicuri fuori casa. I depositi segreti. Che poi, con l’avanzare dell’età, si colmarono di fumetti per adulti, e poi sigarette e giornali hot.
I primi giornaletti (si chiamavano così, fumetti arrivò dopo) della Marvel, Uomo Ragno, Fantastici Quattro, Thor, con le pagine alternate colori-bianco e nero, ebbero un effetto dirompente sulla nostra generazione. Il martello del Dio del Tuono entrò di diritto tra le armi preferite. Ciascuno s’incarnò nel suo eroe preferito. I ciccioni erano La Cosa o Hulk, gli agili l’Uomo Ragno, i collerici la Torcia Umana. Io amavo Thor, che, come si sa, quando era un semplice mortale trovò un pezzo di legno, e per un caso, battendolo in terra, si trasformò in Thor. Per qualche anno io provai tutti i legni che mi capitavano tra i piedi. Ma niente.
Anche il fatto che il suo magnifico Mjolnir tornasse indietro da solo era assai intrigante. Molto più comodo dei boomerang che fabbricavamo col solito metodo, e non funzionavano mai. Io avevo trovato una catenella (forse era quella di un cesso, ma non ci sottilizziamo) che ritenevo avesse doti magiche. Mi allenavo ore ed ore a farla roteare, sperando nella creazione di un varco spazio-temporale che mi portasse ad Asgard o in un posto simile, oppure a lanciarla confidando in un suo ritorno. Ma niente. Quella si ostinava a restare normale, una semplice catenella da cesso. Fin quando non mi volò dal balcone del quarto piano restando impigliata in quello del secondo, disabitato da sempre.
Il gioco si estendeva a tutto. Lance magiche (i pali delle scope), sperimentate contro le sorelle e poi usate contro gli amici, scudi indistruttibili che erano i coperchi dei recipienti dell’immondizia, elmi magici (i cartoni del panettone con i buchi per gli occhi), guanti lancia-raggi (quelli per lavare i piatti). Il tagliaunghie, opportunamente limato, diventava un Bowie da caccia agli orsi. Le zanzariere di plastica, quelle a listelli, attaccate a d un legno si trasformavano in un temibile gatto a nove code.
Poi una volta lessi una storia di Thor con il personaggio dell’Alto Evoluzionista. Allora in un barattolo di vernice del nonno (era gialla, mi ricordo) infilai dentro della mollica di pane, foglie di menta, olio, fondi di caffè, e dozzine di altri ingredienti ancora. Con l’intento di creare un essere mostruoso che mi obbedisse. Lo lasciai al sole per diverse settimane, controllando di tanto in tanto.
Non potete immaginare lo sgomento quando, rovistando in quella mistura magica con un legnetto che era una bacchetta magica consacrata nel sacro pentagono di Loki, ci scoprì un grosso verme, orripilante, con i colori della vernice gialla e del caffè, che si muoveva, vivo e schifosissimo. La nausea mi fece gettare tutto di corsa nell’immondizia. Ma volete mettere, la soddisfazione? Avevo creato la vita. Mi ripromisi di ritentare l’esperimento in seguito, ma non trovai mai il tempo per farlo.
Ormai ero grande, e cominciai ad interessarmi ad altri giochi. La ragazzina che mi sorrideva ogni volta che la incontravo, ad esempio. Quello scombussolamento. Quell’entusiasmo, superiore persino a quando guidai la carica della mia banda in bicicletta contro gli irriducibili nemici del rione vicino.
Non ho mai smesso di giocare. Penso che il segreto della mia rocciosa maturità sia tutto qui. Giocare, in questa simulazione affettuosa, in questo simulacro di vita, che è la vita stessa.
Giocare fino alla fine. Questo è il segreto. Senza illudersi di vincere, o di perdere. Giocare per il gusto. Perché il gusto c’è. Anche quando non si vede.