politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma
questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi
finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi
non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere
solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in cambio di favori illeciti. Italo Calvino
Tra scandali vari, veri o presunti, dal nord al sud del paese, le Regioni sono al centro dell’attenzione mediatica a ridosso delle elezioni di giugno. Dopo oltre 50 anni dalla loro istituzione si può in effetti ben fare un bilancio sul regionalismo italiano. Poche luci e molte ombre, emerse con nettezza nella fase dell'emergenza Covid ma che erano già venute allo scoperto nel corso degli ultimi anni. Con Franco Ambrogio scrivemmo un libro un paio d’anni fa sul fallimento (parola grossa ma non lontana dalla realtà) del regionalismo non solo in Calabria. Siamo stati facili profeti: non solo non si è raggiunto l'obiettivo di avvicinare l'Istituzione ai cittadini ma le Regioni si sono via via trasformate in macchine elefantiache che hanno moltiplicato i problemi anzichè aiutare a risolverli. Invece di essere enti di programmazione sono diventati enti mastodontici di gestione, macchine elefentiache di gestione del potere.
Particolare attenzione c’è nella nascita della Regione in Calabria, segnata dalla rivolta di Reggio, un momento della storia regionale che ha finito per segnare comportamenti e valutazioni, con la duplicazione delle sedi, la contrapposizione municipalistica tra città e il moltiplicarsi di una burocrazia molte volte inefficace e causa dei problemi. Ma il punto politico di fondo è che con le Regioni, in particolare con riforma del 2001, è stata messa in discussione la coesione nazionale. Se non ci sarà una forte e rapida correzione, la conseguenza sarà una spinta ancora più decisa delle regioni del Nord per la cosiddetta «autonomia differenziata» e, di fatto, ci sarà il pericolo di una rottura dell’unità della Repubblica.
Fino a qualche tempo fa, si parlava dell’esperienza regionalista in termini fallimentari, in riferimento al Mezzogiorno. Oggi, è tutto il sistema che ha mostrato la sua pericolosità. Non mi pare infatti che tranne isolatissime eccezioni ad esempio nella gestione della pandemia ci sia stato qualcuno, dal nord al sud, che possa levare grida di gioia. Eppure il tema del regionalismo, dell’esaltazione delle autonomie persino, non è fuori, tutt’altro, da alcune correnti di pensiero politiche e culturali del Mezzogiorno. Non di tutte, in verità, ma se confrontate alla situazione dei giorni nostri salta evidente la differenza.
Quale è, ad esempio, il nesso meridionalismo-regionalismo? Un dato di fatto è che, nell’ambito della Costituente, la motivazione più forte per l’introduzione dell’istituto regionale nella Carta costituzionale è stata quella che, con l’autonomia regionale, il Mezzogiorno si sarebbe potuto difendere meglio dalle prepotenze dello Stato centrale e ci sarebbero state condizioni migliori per un cambiamento della sua condizione. Uno stretto legame, dunque, fra meridionalismo e regionalismo. I fatti hanno poi dimostrato
l’esatto contrario però.
Stiamo appunto ai fatti. L’istituto regionale viene attuato dopo più di vent’anni, in una situazione molto diversa da quella del 1947. L’Italia aveva cambiato volto. La questione del Mezzogiorno non poteva porsi
negli stessi termini di 20 anni prima. Di ciò si resero conto i comunisti che mutarono la visione cui, secondo loro, dovevano ispirarsi le Regioni. Esse non potevano avere più le finalità proprie della impostazione tradizionale dell’autonomismo, cioè la difesa dallo Stato accentratore ma, in un contesto radicalmente diverso dal passato, sarebbero dovute divenire una delle leve mediante le quali intervenire per mutare le scelte del tipo di sviluppo generale: incidere, cioè, sulle scelte nazionali dello Stato.
Hanno, dunque, avuto torto alla resa dei conti anche i comunisti e gli eredi del Pci nelle loro varie forme? La battaglia istituzionale per le Regioni si è dimostrata fallimentare. Si è verificato ciò che qualcuno aveva temuto: non essere di per sé l’istituzione ad agevolare la spinta per una diversa condizione del Mezzogiorno. Al contrario la pressione per una diversa politica economica si è indebolita, invece di diventare più incisiva. Il regionalismo ha permesso di disarticolare la pressione, invece di darle unitarietà. Al Nord si è tramutata nell’attenzione esclusiva agli interessi immediati di quei territori. Al Sud, ha finito per ridursi alla richiesta – o all’offerta – di un’infrastruttura, di un investimento da parte di questa o
quella Regione, e più spesso a una domanda indiscriminata di spesa pubblica. Perciò, si è inceppata tutta l’economia nazionale. È andato in crisi il sistema-Paese. Si è disarticolato il Paese e sono cresciute le politiche localistiche e i piccoli orizzonti di governo. Il Nord si è bloccato, il Sud è peggiorato e l’Italia è diventata più piccola. Poi sono arrivati i ladroni e i predoni e tutto sta finendo a carte quarantotto!