di MARIA FRANCO
Non ne ricordo il titolo, me ne scuso. Ma è un libro che mi è stato molto utile. Mons. Bregantini lo pubblicò quand’era vescovo di Locri e quella pagina, vergata dal co-autore, sa di pane e olio, di cose buone e salutari.
E’ un elenco di frasi fatte, anzi due: il primo, di espressioni che ci siamo sentiti dire tante volte quand’eravamo piccoli e che ci davano molto fastidio e il secondo di frasi che vorremmo sentirci dire adesso e/o ancora e magari nessuno ci dice.
Con gli adattamenti del caso, da quel momento questa paginetta fa parte del mio materiale scolastico. E le risposte dei ragazzi, ogni anno, certificano il peso che le parole giuste o sbagliate hanno avuto nella loro vita.
Non c’è bisogno di essere credenti di stretta osservanza per riconoscere come giusto il monito evangelico – “Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna” – perché le parole possono fare molto male. Ferire, straziare, uccidere.
Viviamo, tutti, in un’epoca di chiacchiericcio continuo. I media, i social che rimestano per mesi gli stessi argomenti, soprattutto quelli che possono sviluppare gli istinti peggiori. Il linguaggio sempre più sciatto e volgare. Il turpiloquio che non è più tratto distintivo, come si diceva un tempo da scaricatori di porto, ma viene sfoderato, come fosse una tranquilla sequela di buongiorno e buonasera. Lo streaming, che dovrebbe essere l’esaltazione del dibattito trasparente, trasformato da uno degli interlocutori nel “parlo (anzi: urlo, ndr) io; taci tu, miserrimo, che non hai diritto di aprire bocca”.
Viviamo in un mondo di parole brutte. Che fanno crollare i ponti tra le persone, frenano la (ri)costruzione al meglio di se stessi, tendono a far rinchiudere molti nel chiuso della propria casa.
Eppure le parole sono vita. Linfa che scorre dalle radici del tempo, attraversa i nostri rami, produce foglie, fa sbocciare i fiori e produrre frutti succosi e nutrienti. Scambio che suggella ogni altro scambio: perché uno sguardo, un abbraccio, uno stare accanto in silenzio possono essere più importanti delle parole, ma solo in certe circostanze e per alcuni momenti, poi, senza parole, non ci sarebbe più nulla.
Non sono osservazioni poetiche o moraliste da destinare ai salotti eleganti e/o ai bimbi dell’asilo. Sono osservazioni pratiche. Che riguardano la vita quotidiana, il lavoro, le piazze virtuali in cui ci incontriamo quotidianamente, la politica. Perché le parole possono essere dure, taglienti, senza sconto alcuno, ma devono contenere in sé la consapevolezza che si parla tra persone: con le quali il contrasto può essere assoluto, ma vanno mantenute le forme della comune umanità, dell’essere parte (che lo si voglia o meno) di una comunità. Si può esprimere il proprio dissenso in maniera chiara, radicale, assoluta, usando parole che non inquinino ulteriormente la nostra vita collettiva, che non rendano più difficile il crescere di chi ancora non ha l’età di una piena consapevolezza di sé.
Abbiamo un problema drammatico, nel mondo, di ordine ecologico. C’è, chiaramente, un’ecologia dell’ambiente. Ma c’è anche un’ecologia della mente, delle umane relazioni, della lingua. In nulla meno importanti della prima.