di MARIA FRANCO
Oltre i detrattori più o meno professionali (di cui qui non si tiene conto), non mancano anche sincere, stimabili e colte persone tra quelle che, sui social, hanno già messo le mani avanti su Anime Nere. Ovvero hanno espresso - insieme a complimenti e felicitazioni per il notevole successo di critica, nazionale e internazionale, che il film di Francesco Munzi, tratto dal libro di Gioacchino Criaco, ha ricevuto al Festival di Venezia - anche preoccupazione, dispiacere, rabbia e fastidio. Perché il film sarebbe un altro tassello di un cliché, ovvero che la regione – complessa, sfaccettata, problematica ma non priva di luci, con una mala diffusa, ma piena di gente perbene – riesca ad ottenere la ribalta solo se si porta in scena la ‘ndrangheta. E che il film, più avrà successo, più possa nuocere all’immagine della Calabria.
L’argomento immagine non è certo da prendere sotto gamba in una società che dalla multimedialità (e soprattutto da ciò che passa in video) è fortemente influenzata. Ma l’immagine non è che la capacità di presentare bene un contenuto. Per la proprietà transitiva, l’immagine della Calabria è stata (ed è) deturpata da chi ha sfrantumato (o continua a lasciar sfrantumare) le sue coste e le sue montagne, le sue campagne e il suo artigianato, non sviluppato un’economia adatta al territorio e alla modernità, non adeguatamente conservato e valorizzato le ricchezze che la sua lunga storia le ha lasciato, non sufficientemente contrastato illegalità di gruppi e di singoli, svilito la sua anima. Di contro, chi ne favorisce l’immagine è chi salvaguarda ed esalta le sue potenzialità, chi prova a renderla più vivibile, più capace di interagire con il mondo, più umana.
Se c’è una cosa che non bisogna chiedere ad un libro che voglia essere, se non Letteratura, almeno alta narrazione e ad un film di pari livello è quello di avere tra i suoi obiettivi la creazione di un’immagine. Ad un libro, ad un film, si può chiedere solo (?!?) di raccontare con onestà, passione, stile un frammento della complessa, variegata, molteplice realtà del nostro esistere ed essere nel mondo. Se ci riesce, che narri una vicenda bella o brutta, buona o cattiva, carezzevole o urticante, accresce la nostra conoscenza di noi stessi e del mondo che abitiamo, allarga i confini della nostra sensibilità, ci rende più umani. Un romanziere, un regista, non è né un sociologo che registra un certo status di una comunità né il direttore dell’ente turistico di una città né il capo degli industriali alla ricerca di finanziamenti di banche estere né un politico cui attiene la soluzione dei problemi economici e sociali del territorio. È l’occhio che isola dei particolari e li porta ad evidenza assoluta, la parola che dà voce anche ai silenzi delle pietre, è l’intuizione che coglie l’essenza del reale, non solo oltre l’apparenza, ma anche oltre la stessa realtà.
Anime Nere versione libro è una descrizione sofferta e asciutta di alcuni mali della Calabria: sembra scritto con il sangue che scorre ancora vivo dalle ferite di chi della propria terra porta addosso le stigmate. Anime Nere versione film è stato salutato, dal Corriere della Sera, all'Espresso, al Figarò, come un capolavoro. Quindi, un libro da leggere e un film da vedere e da giudicare come libro e come film.
Ma un’opera (d’arte), se è viva, entra a far parte della vita. Non si può, perciò, negare che anche un libro e, soprattutto, un film, ove ottengano un larg(hissim)o successo, abbiano la loro influenza nell’affermarsi di un comune sentire, nel radicamento di idee e sensazioni, nel costruire lo sguardo comune con cui si vedono certi fenomeni. Non ci vuole, quindi, la zingara per ipotizzare che, dal 18 settembre, quando Anime Nere sarà nelle sale cinematografiche ci saranno molti commenti sul film (e sul libro da cui è tratto), ma si infittirà anche il dibattito su la Calabria e la sua rappresentazione. Magari, potrebbe essere l’occasione giusta perché anche questa discussione, avvitata da tempo su se stessa, faccia un salto di qualità.