C’è una scomoda verità nell’ultimo rapporto della Fondazione Moressa che tutti hanno taciuto. Gli immigrati rappresentano il 9 per cento degli occupati italiani, producono un valore aggiunto pari a 131 miliardi ogni anno. E ogni anno versano alle casse previdenziali qualcosa come 11,9 miliardi di euro, ai quali si aggiungono 3,3 di Irpef. Più di quindici miliardi. È una cifra chiave, quest’ultima. Che fa deflagrare meglio di qualunque analisi politica, uno dei tanti cortocircuiti percettivi entro cui sono finiti gli stranieri italiani e i loro diritti.
Grazie ai contributi versati a beneficio della collettività, i lavoratori immigrati potrebbero infatti finanziare da soli il reddito di cittadinanza e i centri per l’impiego anche per tutti gli “italiani di nascita”. Eppure chi tra loro perde il lavoro o è ancora disoccupato non potrà ricevere i 780 euro, dal momento che il sussidio sarebbe riservato “solo agli italiani”. Sono infatti 6,5 milioni i bisognosi che avrebbero diritto al reddito di cittadinanza in Italia. Ma tra i poveri da abolire per decreto, non figurano gli 1,5 milioni di stranieri attualmente disoccupati che vivono in condizioni di indigenza.
Al di là di valutazioni ideologiche o propagandistiche, si tratta di una scelta del tutto incomprensibile anche sul piano meramente economico. Se infatti, come ha detto Luigi Di Maio più volte, l’obiettivo del sussidio è proteggere chi non lavora nell’intento di accompagnarlo verso una nuova occupazione, perché il ministero del Lavoro rinuncia a un importane bacino di potenziali lavoratori di oltre 1,5 milioni di persone? In altre parole, se i 2,4 milioni di occupati immigrati fruttano oggi al Paese 131 miliardi di Pil e 13 miliardi di contributi, quanti ne frutterebbero un milione e mezzo in più? Collocarli nel mondo del lavoro sarebbe certamente più semplice, peraltro. Come sottolinea il rapporto della Fondazione Moressa, l’istituto di studi nato da un’iniziativa della Cgia di Mestre, la maggior parte degli occupati stranieri svolge lavori poco qualificati, quindi faticosi e poco retribuiti, mentre gli occupati italiani si collocano nelle professioni più qualificate.
Oltre che discutibile sul piano economico, la scelta di escludere gli stranieri dalla protezione sociale si espone in secondo luogo a forti rischi di incostituzionalità. «È inaccettabile, secondo il diritto europeo, che una prestazione assistenziale come il reddito di cittadinanza possa essere data solo agli italiani», ha avvisato l’ex ministro del Lavoro Tiziano Treu, oggi presidente del Cnel.
Del resto la Corte di Giustizia europea si è pronunciata più volte su questioni analoghe, sottolineando come le misure di protezione sociale debbano essere estese anche agli stranieri che hanno regolare permesso di soggiorno, e con assoluta certezza ai cittadini comunitari. Basti qui citare il caso del bonus bebè erogato nel 2012 a Brescia, solamente ai cittadini italiani. Che ha visto i giudici stabilire come la misura debba essere estesa a tutti i residenti, compresi quelli stranieri. È lo stesso principio che è stato ribadito dalla direttiva Ue del 2012: chiunque abbia un permesso di soggiorno che consenta di lavorare ha diritto a tutte le prestazioni sociali, ha chiarito l’Europa. Significativa anche la sentenza 187 del 2010 della Consulta, alla quale si era rivolta una cittadina rumena con regolare permesso di soggiorno che si era vista negare l’assegno di invalidità civile. Investita del caso, la Corte ha spiegato che allo Stato è consentito discriminare l’accesso al welfare sulla base della cittadinanza, ma solo a patto che ciò avvenga entro certi limiti, ossia a condizione che non siano violati i principi di non discriminazione e di rispetto dei diritti primari della persona. I giudici hanno chiarito che non è possibile negare «un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento dei “bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare; rimedio costituente, dunche que, un diritto fondamentale perché garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto».
Alla luce di pronunciamenti così chiari, è sin troppo semplice profetizzare dunque che cosa accadrà una volta varato il reddito di cittadinanza: migliaia e migliaia di ricorsi. Che intaseranno i tribunali e metteranno a rischio la misura stessa nel suo complesso, quando lo Stato si troverà costretto a reperire risorse che non aveva preventivato onde sanare a posteriori le carenze di una legge che si profila perdente sul piano economico, piena di vulnus sul piano giuridico e poco lungimirante se rapportata agli scenari demografici che l’Italia si troverà a fronteggiare nei prossimi trent’anni.
Come riferisce il report della Fondazione Moressa, nel 2050 la popolazione italiana non raggiungerà i 59 milioni: ci sarà rispetto a oggi un tre per cento in meno di abitanti. Ma il vero problema per la sostenibilità economica del Paese è che a diminuire sarà la popolazione dai 15 ai 64 anni che subirà una contrazione di 7 milioni, mentre la popolazione con almeno 65 anni aumenterà di 6 milioni. È un dato molto significativo quest’ultimo, se si considera che rispetto agli italiani gli stranieri sono più giovani e incidono sulla spesa pubblica solo per il 2,1%. Il Paese invecchia sempre più insomma, le spese pensionistiche sono destinate a lievitare. Forze fresche sono necessarie, tanto più che negli ultimi sei anni 400mila giovani italiani istruiti hanno lasciato i confini nazionali.
In buona sostanza, procedere a una seria integrazione sarebbe nel nostro interesse. Ma se solo si osserva più nel dettaglio il decreto sicurezza del governo, si noterà ancora una volta che esso contiene linee guida contraddittorie e addirittura rischiose, rispetto a quelle davvero sarebbero auspicabili per favorire la crescita e l’occupazione. Il pacchetto Salvini contiene tra le altre misure un drastico taglio dei fondi destinati all’accoglienza (due miliardi e mezzo di euro in tutto) che secondo una delle ultime diretta Facebook del ministro dal tetto del Viminale potrebbe rasentare il miliardo di euro. Si tratta di denari che oggi garantiscono pasti, alloggi, assistenza sanitaria e consulenza legale a migliaia di migranti ospitati nei Cas, i Centri di accoglienza straordinaria di competenza delle prefetture, e all’interno del sistema Sprar gestito dai comuni che assicura protezione a richiedenti asilo e rifugiati. Il decreto Salvini limiterà i progetti di integrazione e inclusione sociale previsti dal sistema Sprar esclusivamente ai titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati.
Ma che cosa accadrà una volta dimezzate le risorse ai 37mila ospiti attuali? «Quello che si prepara è un disastro», ha spiegato il sindaco di Prato Matteo Buffoni, delegato Immigrazione dell’Anci. «Se dimezzi i fondi – ha chiarito Buffoni - dimezzi anche i servizi e visto che le espulsioni è impossibile farle, tutti coloro che verranno esclusi dal circuito dell’accoglienza rimarranno sul territorio. Alla fine a restare con il cerino in mano saranno i sindaci». In altre parole, le 36.995 persone ospitate oggi dai comuni, tra cui figurano 2.177 famiglie, 3.127 minori non accompagnati e 6.898 persone vulnerabili, ossia malati psichici, vittime di schiavismo e torture, disabili e donne incinte, si vedranno in larga parte negato dallo Stato il diritto ad essere assistiti. E probabilmente, in assenza di quello status di protezione umanitaria che sarà molto più difficile ottenere, molti finiranno in strada. Non si sa a carico di chi. Idem per i 130mila migranti oggi presenti nei Cas delle prefetture.
Costretti per decreto a diventare clandestini, per il tramite dell’abolizione della protezione umanitaria che è l’altro punto nodale del decreto Salvini. Per effetto di questa manovra a tenaglia, e in netta contraddizione con le parole del ministro che intende “rimpatriare i clandestini”, l’Anci ha già calcolato che solo nel 2019, il nostro territorio sarà popolato da 50mila irregolari in più. Che come è noto, al di là della propaganda sui social, non saranno rimpatriati se non in percentuali risibili. E imporranno, secondo i calcoli dell’Anci, una spesa di oltre 280 milioni di euro all’anno ai comuni che comunque non potranno esimersi dall’offrire assistenza sanitaria e sociale a chi si trova improvvisamente per strada in una specie di limbo. «Stiamo parlando per lo più di disabili, persone con disagio psichico e famiglie», spiega Buffoni.
Va considerato inoltre una piccola parte dei migranti ai quali sarà rifiutata la protezione, finirà nei Centri per il rimpatrio (Cpr), dove potranno essere trattenuti fino a sei mesi prima di essere espulsi. Un film già visto, dato che i numeri spiegano come il trattenimento nei Cpr produce solo metà delle espulsioni attese. E che pone peraltro rilevanti profili di incostituzionalità: a che titolo persone che non hanno commesso alcun reato vengono detenute? E a che titolo può avvenire la revoca della cittadinanza per chi commette determinati reati? «Discriminare all’interno della cittadinanza – hanno spiegato in una nota congiunta su Libertà e Giustizia Zagrebelsky, Carlassare, Settis e Ginsborg - significa creare un ordinamento separato sulla base dell’appartenenza etnica. D’ora innanzi, alcuni saranno cittadini; gli altri sudditi». È un’altra dalle aporie logiche che gli studiosi colgono nel decreto Salvini: un provvedimento che nasce per risolvere la presunta emergenza migranti, e che invece innesca un’emergenza reale nei territori.
Una contraddizione netta che il Parlamento non sembra al momento avere colto, ad eccezione della senatrice del Movimento 5 Stelle, Paola Nugnes. Che fornisce del decreto Salvini un’interessante lettura. «La cancellazione della protezione umanitaria prevista nel decreto – osserva la parlamentare pentastellata - produrrà almeno 50mila irregolari in più solo nel 2019, cifra destinata a raddoppiare appena scatteranno le richieste di rinnovo. E, purtroppo, gli irregolari non possono far altro che cedere alla criminalità organizzata facendo da manovalanza per poter sopravvivere. È questo che vogliamo? Direi di no, e sembra assurdo assumere 10mila membri delle forze dell’ordine in più e allo stesso tempo creare vere e proprie emergenze sociali a carico dei Comuni». Negare risorse agli orfani che intendono studiare, alle famiglie che intendono integrarsi, a disabili e donne incinte oggi presenti negli Sprar, vuol dire puntare scientemente sulla volontà di non integrare nessuno, o comunque di integrare il minor numero possibile di persone.
«Se l’obiettivo è ridurre l’irregolarità, i conflitti e le marginalità – è l’obiezione sollevata dal prefetto Mario Morcone, nella scorsa legislatura a capo del Dipartimento Libertà civili e immigrazione del Viminale - allora dovremmo adottare un criterio esattamente opposto e cioè quello di offrire delle griglie di regolarizzazione, caso per caso, come avviene già in Francia e in Germania, per tutti coloro che non hanno commesso reati in Italia e che, invece, stanno fornendo un contributo al paese. Fare il contrario, partire dall’idea di chiudere e basta, lasciando solo alcuni casi residuali di protezione, finisce per aumentare la marginalità degli irregolari, agevolare percorsi di radicalizzazione: sostanzialmente far crescere il conflitto piuttosto che l’inclusione».
Disintegrare al posto di integrare. Decrescere invece di crescere. Escludere invece di includere. L’idea di rafforzare i diritti altrui minando i diritti degli altri, non è che un mero inganno. Specie in una società come quella italiana che non è più in grado di reggersi sulle gambe degli italiani che sono italiani per ius sanguinis. È quello che sta per accadere a Riace, prossimo a chiudere i battenti dopo gli ultimi provvedimenti per i 200 migranti residenti che avevano fatto rivivere un Paese ormai estinto.
Ed è d’altra parte quello che è già accaduto a Ventotene nel silenzio di tutti i media. Nel piccolo isolotto dove è nata l’Europa, il sindaco aveva già lanciato l’anno scorso la proposta di accogliere famiglie di rifugiati per scongiurare la chiusura della scuola media locale. Ma la popolazione si è opposta. Il risultato è che oggi gli 8 bambini iscritti alla scuola elementare e i sette della scuola materna, saranno costretti a proseguire gli studi a Formia: due ore di nave e un’ora di aliscafo ogni giorno, condizioni meteorologiche permettendo.
*giornalista, dal Dubbio.