In morte di un giornalista. Ricordando PAOLO

In morte di un giornalista. Ricordando PAOLO

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Quando se ne va uno di noi, di quelli cioè che abbiamo iniziato a fare il lavoro di giornalista per strada e non nei corridoi delle redazioni, dove poi siamo arrivati più tardi per dirigerle, magari, quelle stesse redazioni, è sempre come se se ne andasse una parte di noi.

Una storia che compare e poi scompare. E c’è sempre un pizzico di autoreferenzialità nel ricordo di non c’è più. Parli di te con la scusa di ricordare chi se n’è andato. Inevitabile, così come sta accadendo in queste ore per la morte di Paolo Pollichieni. Un fiume di racconti autobiografici. Il più delle volte autoreferenziali.

Paolo è stato un cronista straordinario, un polemista senza eguali, un uomo contro, a volte perfino a prescindere. Con lui 40 anni di lavoro e di baruffe, 40 anni di scarpinate e di tensioni. Era fatto così: lo lasciavi amico di uno e poi te lo ritrovavi suo acerrimo nemico. Più tardi provava a spiegarti i motivi, a volte imperscrutabili, di quegli amori che divenivano odi e di quegli odi che altrettanto improvvisamente sbocciavano in amori. Facevamo finta di avere capito ma a volte lasciavamo perdere. Lui lo faceva sempre col rigore del racconto dei fatti, spesso di quelli che nessuno di noi aveva nemmeno lontanamente intuito.

 Lo incontrammo entrambi per la prima volta a Locri, dove verrà seppellito, tanti e tanti anni fa. Locri allora era una fucina di notizie di grande spessore nazionale. Con Locri si andava in prima pagina. Lui era il punto di riferimento di decine di noi. Lui e Gigetto Romano, il fotografo. Quante ne abbiamo fatte! Da Locri a Reggio e poi Roma, Cosenza, Catanzaro, Lamezia, in un turbinio di esperienze e di giornali appena nati o fatti nascere addirittura. Come quando fondammo Calabrianews - era un momento per lui difficile - e noi due, assieme a Marcello Furriolo, lo costringemmo a fare il direttore. Giornali nati, cresciuti e poi morti.

A un congresso di giornalisti calabresi Paolo e noi due, più Lullo Sergi di Repubblica e Gianfranco Manfredi del Messaggero, proponemmo un documento chiedendo che tutti i giornalisti iscritti alla massoneria dichiarassero pubblicamente la loro iscrizione. Nessuna caccia alle streghe, ma solo un bisogno di trasparenza e chiarezza. Messo ai voti il nostro documento raccolse 5 firme: quelle dei proponenti e quelle soltanto. Paolo ci scherzava, lo ha fatto ancora di recente, su questo numero così esiguo. Tempi bui per i troppo buoni, diceva.

Un giornalista è uno di quelli che vede, legge, racconta, spiega e lo fa non necessariamente con l’algida presunzione di mantenere le distanze, non prendendo parte o non schierandosi. Lui non apparteneva a questa categoria.

Ci metteva la faccia, ne ha messa anche troppa a volte, ma non lesinava quella dote che o ce l’hai o non puoi fare questo lavoro: schierarsi. Che vuol dire raccontare, certo, con fedeltà quello che avviene ma con il sale e il pepe della vita vera. Della vita reale, di quello che c’è oltre il confine, oltre la siepe. Ecco perché la morte di Paolo ha suscitato tanta reazione e tanto dolore anche in chi non lo conosceva affatto ma solo lo leggeva magari, o lo ascoltava o lo vedeva in video.

  Quando se ne va un giornalista così viene voglia di dire al mondo intero: ma voi che ne sapete di cos’è questo lavoro? Ma voi che ne sapete di cosa è un giornalista quando andate cianciando che la ‘’...rovina vera dell’Italia sono i giornalisti...’’ e cose del genere?

  Caro Paolo - come scriveva tanto tempo fa uno dei nostri maestri con una frase diventata poi abusata e quindi storpiata - ti sia davvero lieve la terra, così dura con te e sotto di te. Nella tua, nella nostra meravigliosa Locri ci ricorderemo per sempre di quei giorni con mamma Casella, con Celadon padre a raccontare quelle e altre mille storie.

Cara Giovanna, cari Pietro e Luciano, questo è stato Paolo. Ma questa per voi non è una notizia. Lo sapevate.