RECENSIONI. La trilogia della lingua tagliata, di Pino Ammendolea

RECENSIONI. La trilogia della lingua tagliata, di Pino Ammendolea
la trilogia La Trilogia della lingua tagliata è la raccolta di tre testi teatrali di uno dei più interessanti autori di teatro calabrese dialettale: Pino Ammendolea. Qui scatterebbe automatico il pregiudizio sui testi dialettali e la ricerca dei classici luoghi comuni del dialetto: doppi sensi, umorismo da avanspettacolo, equivoci linguistici, inserimento di stereotipi, ecc. Ma nel libro c’è molto di più di tutto questo, e la lettura si fa interessante a cominciare dalla prefazione curata da Giuseppe Macrì.

Il dialetto si pone come una ferita aperta in piena contaminazione con l’omologazione globale, tuttavia, scrive Macrì, è possibile arginare i danni, se si comincia un processo di “rigenerazione conservativa” il cui proposito non sia nostalgico bensì dialettico, additando come primo intervento terapeutico, la realizzazione di una serie di regole condivise, che permettano di trasformare efficacemente il fonema in grafema ponendo fine all’anarchia del segno, permettendo di identificare in modo univoco il significato attraverso la lettura. Certo, il rischio di una simile operazione -Macrì lo dichiara senza riserve- è costituito dalla trasformazione del dialetto in una lingua “morta a causa della sua trasformazione in reperto archeologico”, facendone soggetto di studio per appassionati più o meno nostalgici. Ma non è questo l’obiettivo, anzi il passaggio alla parola scritta “non è il solo mezzo per la sua conservazione”, indicando nell’espressione musicale lo strumento cardine per la diffusione sia della poesia dialettale, che per lo stesso “idioma vernacolare”. 

L’altro strumento è senz’altro l’opera teatrale, come nel caso di questa Trilogia,  in cui all’uso del dialetto si aggiungono delle intercambiabili situazioni di vita, cioè delle vicende che travalicano il concetto di legame indissolubile alla località, per divenire vicende legate alla condizione umana.

In questa prefazione, Pino Macrì offre al lettore uno sguardo circostanziato e limpido dello stato del dialetto e del suo uso e anche del suo futuro, offrendo delle proposte sulle quali è possibile confrontarsi positivamente, senza le solite inutili polemiche, i distinguo, e le approssimazioni che spesso accompagnano questo tipo di argomento.

Una nota tecnica per un idoneo accostamento alla lettura dei testi è anteposta alle tre proposte teatrali, e rende subito l’evidenza di quanto è stato analizzato subito prima, offrendo un immediato risconto di come sia possibile praticamente realizzare, quella che Macrì stesso chiama “un primigenio nucleo cui, via via, aggiungere altre regole condivise”.

Non resta che cogliere questo prezioso  spunto dunque e cominciare, come si fa in questi casi, dal principio.

Il primo testo è La scelta, nato come testo radiofonico, e successivamente sviluppato per la rappresentazione.

Il teatro di Pino Ammendolea sta stretto sulla pagina, scalpita, freme vuole uscire dai canoni del foglio per vivere nell’interpretazione degli attori. Le note di regia sono minime, sono quasi spunti di improvvisazione,  come nella più classica delle rappresentazioni della Commedia dell’Arte. Soprattutto nella prima pièce La scelta -dove il piccolo Ciccio deve scegliere cosa vuole fare da grande-  per tutto il testo, vi sono diversi punti in cui gli attori sono chiamati a creare delle gag a tema, in modo assolutamente libero. La storia di Ciccio alterna anche momenti musicali di canto corale e la recitazione di qualche poesia, rendendo una grande varietà di interventi, basati sul gioco stesso del teatro più popolare, ma anche momenti di riflessione e di denuncia.

Nella seconda parte, costituita da una commedia semiseria in due atti dal titolo ... Non mi tocca,  è di scena il triangolo classico della commedia: il marito la moglie e l’amante. E se nel primo tempo si ride sui canoni delle tempistiche dell’azione scenica, nel secondo tempo prende forma una crescente critica sociale sul tema dell’essere e dell’apparire in un crescendo che va “dalla farsa alla satira dal grottesco al drammatico” che nell’epilogo surreale trova la sua stralunata conclusione.

 Il libro si chiude in crescendo con Per favore non scherziamo, un testo sospeso tra il dialetto e l’italiano. Dal confronto di queste due lingue nasce anche il confronto tra genitori e figli, ma anche tra il buon senso e l’esperienza in contrapposizione allo studio e l’alienazione. I personaggi sul palco sono legati dall’affetto filiale, che diventa insufficiente quando a prendere il sopravvento è il rifiuto dell’altro vissuto in termini di vicinanza reale e di fisicità. Così il giovane figlio convive con un manichino come compagna di vita e va a cena con i genitori in un ristorante di pesce senza spostarsi dalla sua stanza, consumando invece, la cena ben più modesta, realizzata dalla sconsolata madre. Una vita vissuta da recluso con il mondo davanti agli occhi offerto dal computer, come un hikkomori nostrano. Ecco che Beckett, ma soprattutto Ionesco appaiono tra le righe di questa rappresentazione dell’assurdo, in tutta l’efficacia di un simile approccio nella denuncia dei disagi sociali, nella difficoltà/impossibilità di comunicazione quando di fronte alla vacuità del figlio si contrappone l’esigenza realista del genitore.

Un testo completamente originale nella sua peculiarità linguistica e nella tematica affrontata che lo rende attuale e vivo in ogni suo aspetto.

Pino Ammendolea, Trilogia della lingua tagliata,  prefazione Giuseppe Macrì, Laruffa Editore (2017);  euro 12,00