
«Dopo l’11 settembre tutto ciò ha assunto, senz’altro, maggiore visibilità e legittimità. […] La mobilitazione antislamica della Lega Nord tende a investire in particolare i luoghi di culto (moschee e sale di preghiera) che, proprio per il fatto di marcare simbolicamente in senso islamico il territorio, rendono particolarmente visibile, agli occhi dei leghisti, la cifra di questa supposta invasione». Osserva la sociologa Monica Massari nel saggio Islamofobia (Laterza 2006).
Nato nel 2015 all’interno del Dipartimento di lingue e scienze dell’educazione dell’Università della Calabria, il laboratorio Occhialì è animato da ricercatori e studiosi di scienza politica, filosofia, storia, che indagano in modalità multidisciplinare il passato e le prospettive dei popoli che più in generale gravitano sulle sponde del mar Mediterraneo. Centro di migrazioni, commerci storici, traffici illeciti. L’area mediterranea unisce tre continenti e culture differenti. Nord Africa, Oriente arabo, Turchia di Erdogan, polveriera Balcani: dinamiche legate all’islam o a questioni religiose ed etniche.
E qui in Calabria, nella fucina Unical, si inserisce la ricerca scientifica e le attività formative del centro Occhialì, coordinato da uno dei massimi orientalisti, il prof. Alberto Ventura, docente di Storia dei paesi islamici presso l’ateneo calabrese. Anche per aumentare la conoscenza del tema indagato i membri del laboratorio curano una rivista digitale semestrale e conducono la trasmissione radiofonica Café Istanbul.
In Italia, per dovere di cronaca, non esiste ad oggi alcuna intesa con la comunità islamica anche se i fedeli ad Allah, stranieri e non, rappresenterebbero circa il 4% sul totale della popolazione (15 anni fa la stima era dell’1%). Secondo un sondaggio di Pew research center, realizzato nel maggio 2016, due terzi circa degli italiani si dichiara poco favorevole alla presenza dei musulmani. Lo studio Ipsos Mori del 2016, invece, ha attestato un livello di inconsapevolezza quando si parla di questi temi: gli italiani – rileva l'istituto di sondaggi britannico – credono che circa il 20% della popolazione sia musulmana quando i dati dicono che la stima è del 4% circa.
SLIDE RICERCA IPSOS MORI
La nostra percezione, insomma, sembrerebbe esasperare la realtà o alterarla con letture superficiali. In ogni caso un accordo formale con l’islam italiano oggi sembra irrealizzabile, la proposta deve essere sottoposta al parere del dicastero gestito dal leader della Lega Matteo Salvini, prima di passare dalle Camere per l’approvazione. «Alcune attività vengono regolamentate a livello locale o regionale» spiega il prof. Ventura, raggiunto da Zoomsud nel suo studio dell’Unical. «L’intervento dello Stato è necessario per l’istruzione scolastica, se si vuole stabilire una forma di istruzione religiosa per musulmani all’interno delle nostre scuole, cosa molto problematica. È necessario per l’assistenza negli ospedali e nelle carceri, oggi abbiamo un paradosso in cui l’assistenza religiosa nelle carceri ai musulmani la fanno i preti. E cosa ancora più importante, l’8 per mille. Chi non ha l’intesa non può comparire in quella lista dei beneficiari del modello della dichiarazione dei debiti».
Perché non esiste alcuna intesa con l’islam italiano?
«Innanzitutto il clima politico nel nostro Paese non è stato sempre molto favorevole a questo tipo di intesa, soprattutto oggi. Ma oltre a questo, c’è stata la litigiosità delle varie componenti della comunità islamica stessa che non sono mai riuscite a mettersi d’accordo su un progetto comune di intesa, creando difficoltà al Governo italiano nel trovare un interlocutore rappresentativo e credibile».
Quale scopo ha il laboratorio?
«Direi duplice. Da una parte diffondere il più possibile una conoscenza dei paesi islamici tra i nostri studenti ma anche, secondo le nostre ambizioni, qui nel territorio. L’altro scopo è quello di far maturare dei giovani studiosi che qui hanno la possibilità, confrontandosi tra di loro, di accrescere le loro competenze e di entrare nel novero di una specializzazione accademica complessa dal punto di vista della conoscenze delle lingue e della storia. Visto che non c’è in questa università una struttura dedicata il laboratorio sopperisce a questa carenza creando un centro di ricerca».
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Chi è Occhialì?
«Era un italiano della zona di Le Castella che fu reso schiavo durante un’incursione corsara. Una cosa che succedeva regolarmente sulle due sponde del Mediterraneo. I cristiani catturavano schiavi musulmani e viceversa. La differenza sta nel fatto che molto spesso gli schiavi catturati dai turchi poi a seconda delle loro capacità facevano carriera: Uluç Alì è uno di loro, anzi uno degli esempi più brillanti di queste carriere. Come? Pian piano si fece apprezzare, divenne ammiraglio della flotta ottomana, alla fine fu addirittura nominato governatore di Algeri. Abbiamo preso Uluç Alì come simbolo di questa osmosi mediterranea in cui il “mi faccio turco”, che era allora un’espressione per definire questi rinnegati o cosiddetti tali, rappresentava l’occasione di una ascesa sociale, che magari in patria non sarebbe potuta avvenire».
Come si spiega questa percezione negativa verso i musulmani?
«Viviamo in epoca in cui vengono diffusi dati in libertà, continuamente, ogni giorno. Il 20% di credenti musulmani in Italia è un numero ridicolo, delirio fantascientifico. A parte questo non è solo nell’inculcato timore dell’invasione il problema, il problema c’è sempre stato. Solo che va avanti in maniera sinusoidale a seconda del momento storico, ci sono momenti in cui gli altri mondi – l’Africa, il mondo islamico, l’Asia – vengono percepiti tutto sommato come sottomessi e allora possono essere dipinti con una certa bonomia e benevolenza. Ci sono momenti in cui questi mondi rappresentano un problema perché talvolta si ribellano e, allora, ecco che l’immagine decade improvvisamente a nemico, dipinto nella maniera più oscura possibile. Quindi dalla nascita della religione musulmana, dal VII secolo fino ad oggi, esaminando quella che è stata l’immagine dell’islam nella cultura europea, vedremo questo andamento altalenante che è perfettamente sovrapponibile alla situazione storica del momento».
Dal fermento delle primavere arabe nel 2011, vedi la Tunisia, alle autocrazie del sultano Erdogan e del generale-faraone Al Sisi. I Paesi musulmani dell’area mediterranea guardano al passato?
«Magari… nel passato remoto c’è di meglio. Purtroppo quelle che sono state etichettate come le “primavere arabe”, termine generico che gli storici dovrebbero smettere di usare, hanno avuto una causa comune ma in realtà a seconda della situazione sociale e politica del Paese si sono sviluppate in modo molto diverso, talvolta diametralmente opposto. Parlare di uno stesso fenomeno a proposito della Libia, della Tunisia, della Siria, si è dimostrato empiricamente falso. E quindi bisogna vedere caso per caso. La Tunisia sembra che, dalla rivoluzione del 2011, abbia avuto i risultati più stabili e di apparente successo ma non sono affatto soddisfacenti e ancora meno lo sono quelli della contro rivoluzione in Egitto. Non direi un ritorno al passato, una involuzione verso il futuro».