SAPIENS. SI ADDENSANO NUVOLE NEL CIELO DI BIG TECH

SAPIENS. SI ADDENSANO NUVOLE NEL CIELO DI BIG TECH

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“In risposta alla nuova legge australiana sui media, Facebook limiterà per gli editori e le persone in Australia la condivisione o la visualizzazione di contenuti di notizie australiane e internazionali”. Queste tre righe, apparse sul blog di Facebook la mattina del 18 febbraio scorso, hanno segnato l’apice della guerra tra il governo australiano e il social media da 2,7 miliardi di utenti sulla Terra. Una guerra lampo, terminata con un accordo che ha portato alla modifica della legge che imponeva a Facebook di sottoscrivere accordi con i media per il pagamento dei contenuti pubblicati sulla piattaforma. Il maggiore punto di contrasto, che prevedeva un arbitrato obbligatorio nel caso in cui le parti non addivenissero autonomamente a un accordo, è stato accantonato. Ma la vicenda rappresenta solo una delle spie che denunciano un cambiamento di clima generale e globale per le Big Tech. Microsoft e Google, mentre FB litigava, arrivavano a miti consigli, la prima schierandosi apertamente con gli editori in Europa, impegnati anch’essi in trattative nei singoli Paesi per l’applicazione della direttiva UE sui diritti d’autore. Google, dal canto suo, stanziando un miliardo di dollari in tre anni, ha creato Google News Showcase, che ha attualmente quasi 200 editori in Germania, Brasile, Argentina, Canada, Regno Unito e Australia.

Il CEO ha dichiarato: (Google) pagherà gli editori per creare e curare contenuti di alta qualità per un diverso tipo di esperienza di notizie online. Google News Showcase è un nuovo prodotto che andrà a vantaggio sia degli editori che dei lettori: presenta la cura editoriale di premiate redazioni per fornire ai lettori una visione più approfondita delle storie che contano e aiuta gli editori a sviluppare relazioni più profonde con il loro pubblico.

Ma cosa spinge questi colossi a mostrarsi meno arroganti e meno restii alle regole? Non v’è dubbio che, attenti ai profitti come sono, si stiano industriando per evitare di dovere sborsare, se USA, UE, GB, e altri Stati daranno gambe alle idee che circolano attualmente sulla necessità di metterli un po’ in linea, cifre ben più consistenti. Sulla web tax, ad esempio, si stanno facendo passi avanti. Dal recente G 20 sono giunte, per loro, cattive notizie, con l’impegno per un accordo per una imposta minima che dovranno pagare in tutti e 139 Paesi dell’Ocse dove operano – e non solo dove hanno la sede fiscale – che potrebbe arrivare entro l’estate.

Gli Stati Uniti, infatti, non useranno la clausola Safe Harbor chiesta dall’Amministrazione Trump per permettere alle aziende americane di scegliere se aderire o meno al meccanismo fiscale globale. D’altronde, già a novembre il commissario europeo all’Economia Gentiloni aveva promesso che, senza un’intesa globale in sede Ocse-G20 entro il primo semestre del 2021, Bruxelles avrebbe agito da sola. E c’è di più, perché anche in America alcuni Stati, come il Maryland, si stanno muovendo in questo senso. E, sempre nell’altra sponda dell’Atlantico, Joe Biden non fa nulla per rassicurare Big Tech, annunciando la nomina all’Autorità americana per la concorrenza (Federal Trade Commission, Ftc) l’avvocato Lina Khan, nota per la sua ostilità all’oligopolio dei  giganti della tecnologia, che ha di recente  fatto parte di un team di ricercatori che ha stilato un rapporto per il sottocomitato antitrust della Camera dei rappresentanti nel quale si accusano i Big Tech di monopolio e abuso di posizione dominante. Questa nomina fa il paio con quella, alla terza carica del Dipartimento di Giustizia, Fine modulodi Vanita Gupta, la quale ha promesso di continuare a perseguire una vigorosa applicazione della legge antitrust.

Ma il desiderio di dare una strigliata a queste aziende non si ferma ai governi, perché anche consumatori e dipendenti stanno facendo pressione per valutare il loro impatto sulla società.

L’aumento del livello di controllo su Big Tech segna una sorta di resa dei conti, una conseguenza di una comprensione crescente del potere che queste aziende esercitano e di uno spostamento dello stato d’animo culturale verso l’attivismo per rivendicare un uso responsabile della loro forza.

La questione della disinformazione sulle piattaforme di social media, più in generale, è più importante che mai dopo le elezioni del 2020, un punto di svolta per molte persone nel rendersi conto degli effetti che il discorso pubblico online può avere sulla democrazia.

Due sondaggi del Pew Research Center mostrano che gli americani hanno una visione molto meno rosea di Big Tech rispetto al passato. Un sondaggio del 2019 ha mostrato che la percentuale di americani che credono che le aziende tecnologiche abbiano un impatto positivo sulla società è precipitata, dal 2015, dal 71% al 50%, mentre coloro che ritengono che le società tecnologiche abbiano un impatto negativo sono aumentati dal 17% al 33%.

Sempre P.R.C. ha rilevato che il 72% degli adulti negli Stati Uniti ritiene che i social media abbiano troppo potere e influenza in politica.

Ma c’è un’altra potente forza che si sta preparando all’interno delle aziende tecnologiche: i dipendenti. 

A gennaio, più di 200 - di Google - hanno formato un sindacato - una rarità tra i giganti della tecnologia della Silicon Valley - l’Alphabet Workers Union, il quale ha, tra gli altri, l’obiettivo di garantire che i dirigenti agiscano nel migliore interesse della società e dell’ambiente.

L’attivismo dei dipendenti è esploso in Google nel 2018 con lo sciopero in segno di protesta per la cattiva condotta sessuale, e più recentemente per  il licenziamento di alcuni dei suoi principali esperti di etica dell’Intelligenza artificiale..
una storia che, se imitata, potrebbe cominciare a scalfire le certezze dei vari Google, FB, ecc E per terminare in bellezza, Stuff è il sito di notizie e media numero uno in Nuova Zelanda,

Nel marzo 2019, in seguito all'attacco terroristico in una moschea di Christchurch, trasmesso in live streaming su Facebook, l’a.d. Sinead Boucher e i suoi colleghi hanno smesso di promuovere i loro contenuti sulla piattaforma perché non volevano supportare un'azienda che aveva facilitato questo evento. "Quell'azione non ha avuto alcun effetto sul nostro traffico", ha detto. “Eravamo preparati per un calo del nostro pubblico, ma non ha avuto alcun effetto. Ci ha fatto capire che dovremmo pensare di più alle nostre decisioni, invece di accettare l'idea di dover lavorare con tutte le piattaforme di social media ".  Nel luglio 2020, Stuff ha lasciato il suo pubblico di oltre un milione di follower su Facebook e Instagram.  Dopo tanti mesi, si è appurato che il calo del traffico non è stato statisticamente significativo. I visitatori unici di Stuff aumentano del 5% su base annua e il traffico diretto e di ricerca del sito è aumentato. Continuano a vedere tra il 10-11% del loro traffico social indirizzato organicamente da Facebook perché i lettori condividono ancora i link alle storie sui propri feed di notizie. 

Secondo Stuff, se i mezzi di informazione non sono in grado di creare e mantenere la fiducia del pubblico non hanno futuro.  Stuff ha lanciato il progetto Our Truth, un esame della pubblicazione negli ultimi 160 anni per verificare se ci fosse stato razzismo. Dopodiché, il team editoriale si è scusato pubblicamente per parte del lavoro svolto. 

All'inizio del blocco, Stuff ha implementato un modello di contributo dei lettori che è diventato una sorta di barometro per misurare il gradimento del pubblico: ci sono stati grandi picchi di donazioni per la copertura della pandemia, a seguito del progetto Our Truth, e per la decisione di lasciare Facebook.

E allora? Possiamo immaginare un mondo in cui i grandi pescecani del web vengono ridimensionati, regolamentati, chiamati a rispettare i diritti di tutti e a pagare le tasse. Altrimenti… Stuff – forse - dimostra che è possibile farne a meno.