RECENSIONE Da che parte sta il mare di Annarosa Macrì FRANCO

RECENSIONE Da che parte sta il mare di Annarosa Macrì FRANCO

macrì

di MARIA FRANCO -

“Capii solo dopo, quando il ticchettio della sua Olivetti si spense per sempre, che scrivere è un atto d’amore. Fisico, corporale, totale. Non ha a che fare solo col cervello, con la tua storia, con quello che hai letto e hai studiato, con quello che hai visto, con chi hai incontrato e con chi ti ha indignato. Tu resti seduto a scrivere, racconti di mondi e racconti di vento, racconti di mare e racconti di amori e una gamba si ribella. Ti fa male, vuol il suo spazio. Che c’entra la gamba con la scrittura? Non lo so, ma c’entra. Fuori c’è il sole e tu se lì, al tavolo, e la gamba, oppure la schiena, oppure lo stomaco ti dicono che ci sono pure loro. Ha a che fare col sudore, la scrittura, con gli umori, con le lacrime. Con gli odori: una pagina sa del caffè che avresti voglia di prepararti e resti lì a scrivere; un’altra della sigaretta che sta a consumarsi dentro al portacenere. Un bacio, una carezza. Di più, un abbraccio. E sa respingerti come un amore che non ti vuole più, la pagina bianca, ti dà il senso del vuoto, della morte. Una lotta furibonda fino a farsi male. E ogni volta scrivere è come per la prima e l’ultima volta, come di un amplesso. L’ansia, prima, l’inquietudine. Il piacere e la fatica, durante. E poi la pacificazione, e la stanchezza, come dopo l’amore. Me lo insegnò, tutto questo, lui. Il mio padre maestro”.

Da che parte sta il mare di Annarosa Macrì, edito a Rubbettino, è, nello stesso tempo, un racconto dell’infanzia, una narrazione di famiglia, una storia in cui, nonostante le singole, specifiche, differenze, possono riconoscersi molti reggini che hanno vissuto gli anni cinquanta del Novecento. Non un romanzo della memoria ma il passato fissato in contemporanea dagli occhi della bambina che lo sta vivendo: “L’estate di quell’anno la nostra casa fu un capanno di legno ai Bagni Procopio…”.

La povertà e la dignità, l’appartenenza sempre in bilico tra l’andare via e il tornare, la famiglia come nucleo assoluto della Calabria del ’56: terra di assoluta precarietà, mentre il boom economico sta per trasformare il paese.

Il mondo – dalla nonna, che divide il tempo in pre e post grande terremoto e il mondo in signori e cafoni e ha un ottimo (brutto) motivo per non avere alcuna fiducia nei maschi, alle compagne di scuola, al parroco delle prima comunione – visto con lo stupore, le paure, l’innocenza, le domande e le accettazioni dell’infanzia. Che si sente diversa e irregolare in un mondo di normali e regolari, ma sa pure che quella è la propria vita.

È un testo intenso e sobrio quello di Anna Rosa Macrì, che racconta di emozioni forti, evitando ogni scivolata nel sentimentalismo, ma dando, al lettore, emozioni intense.

Un testo che sembra, in qualche modo, smentire il famosissimo incipit di Anna Karenina, secondo cui “tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.” E, invece, anche ogni famiglia felice lo è a modo suo.

Perché la famiglia della piccola Anna, con i suoi anomali genitori, senza parenti, senza amici, piena di vuoti e di difficoltà, è, a suo modo, una famiglia felice, in cui circolano amore per le persone (amore non convenzionale, anzi a modo proprio) e amore per la conoscenza.

Nette si stagliano le figure della madre e del padre.

La madre, forte e allegra, la professoressa, prima laureata della città, che sposa, contro la volontà dei suoi, un uomo che, per lungo tempo, non lavora e si deve far carico, da sola, del mantenimento delle tre figlie e di un bel po’ di spostamenti nel Nord Italia. Una donna senza vezzi ma innamorata dei fiori, che sa trasformare piccoli spazi improbabili in case, in fondo felici: perché sa bene che la casa è nello stare insieme prima che nelle solide mura e nelle stanze accoglienti. Come sa bene che il mare c’è sempre, anche quando non lo si vede, basta guardare in una direzione e indicarlo sempre più in là.

E il padre, che, nell’ultimo capitolo, diviene non solo la colonna affettiva della bambina e colui che segnerà la sua futura scelta professionale, ma anche la metafora del valore stesso della scrittura, il senso esistenziale e morale che sta nel conservare, in parole, la memoria e l’esperienza della propria vita.

“Avevo capito – scrive Annarosa Macrì, riferendosi al funerale del padre, quando viene letto l’articolo che era costato all’intera famiglia anni di precarietà, con la famosa estate del ’56 vissuta in una cabina-casa – che scrivendo succedono cose, e che succedono cose più grandi se scrivi quello che non si vede, che c’è e che gli altri non riescono a vedere, non solo quello che è sotto gli occhi di tutti”.