LA PAROLA e LA STORIA. Favi

LA PAROLA e LA STORIA. Favi

fave   di GIUSEPPE TRIPODI

- Favi, fave, leguminose antichissime (Per Isidoro, XVII, IV, 3,4, Faba Graeca etimologya a vescendo vocabulum sumpsit, quasi faga; fagein enim Graece comedere dicitur. Primum enim homines hoc legumine usi sunt, Fava è vocabolo di etimo greco, derivato dal verbo fagein, che significa mangiare, quasi a dire faga. Fu, infatti, il primo legume usato dagli esseri umani …), “uno dei primi semi di leguminose impiegati per l’alimentazione (dopo la veccia) …”(Schianca, sub fava).

In Calabria si semina a novembre (San Martinu favi e linu) inaugurando la stagione dell’aratura ( li favi jàprinu la strata); risalendo la penisola la semina avviene dopo i geli invernali perché la pianta non ama le basse temperature.

Occorre sia sarchiare il terreno che rincalzare con terra la pianta quando ha raggiunto l’altezza di venti centimetri circa.

I primi frutti freschi si raccoglievano a marzo (favi marzolu) ed erano particolarmente importanti per la famiglia contadina perché inauguravano la raccolta dopo il periodo invernale che, notoriamente, era sempre in pericolo di carestie: prima Natali non friddhu e no fami / dopu Natali lu friddhu e la fami.

Le fave fresche potevano essere mangiate crude (a Roma fave e pecorino sono cibo imprescindibile nelle scampagnate pasquali e maggesche) oppure cotte a minestra con la pasta, anche con quella fatta in casa (favi e tagghiarini); gli spagnoli hanno un piatto simile che chiamano Fabada, potaje de judìas con tocino (lardo) y morcilla (sanguinaccio).

Il seme, bivalve, è ricoperto da una prima buccia ed ha sulla testa una sorta di capsula che lo collega al baccello da cui si nutrisce. Il baccello da noi si chiamava vaiana, per Rohlfs da faba bajana, fava proveniente da Baja che era centro termale tra Cuma e Pozzuoli; più convincente la derivazione dal latino vagina, donde il castigliano vaina tunica o càscara (guscio) tierna (tenero) y larga en que estan encerradas algunas simientas como las de la col(cavolo) y la mostaza (senape), las judìas (leguminosa locale) , las habas (fave) etc (RAE, sub voce).

La parola è usata, allusivamente, come sinonimo del membro dell’uomo.

Le fave secche venivano raccolte in giugno e liberate dal baccello, che nel frattempo da verde era diventato secco e nero, mediante bacchiatura con un pesante bastone; per lo più erano di color bianco ma non mancavano, in mezzo ad esse, alcune di color viola intenso.

Da un antico vocabolario, molto diffuso tra gli ex carcerati che si erano acculturati dietro le sbarre perché con la sua parte scientifica rispondeva in modo sintetico al bisogno di conoscere il mondo, abbiamo scoperto che le fave bicolori venivano utilizzate nelle votazioni (supponiamo istituzionali): fava bianca voto contrario, fava nera voto favorevole (Il Novissimo Melzi, Milano Vallardi 1939, sub voce). Però in castigliano la cosa è certa: fabear, votar con fabas blancas y negras, e anche fabeador, consigliere comunale di Saragoza cuyos nombres se sacaban por suerte … y porquè votaban con habas se le llamaba fabeadores (RAS, sub voce).      

Forse per la forma piatta, simile a quella delle monete, esisteva in latino l’espressione cudere fabam, battere la fava, rimetterci le spese.

Le fave secche venivano infornate e, private della scorza (ma a volte la fame faceva ingoiare anche quella), diventavano un buon cibo per grandi e piccini; u favi nfurnatu veniva distribuito nelle bettole, assieme alle alici salate o ai lupini ammollati, per aiutare i bevitori a proseguire le loro libagioni.

Antichissimo è l’uso di schiacciare le fave secche e fare bollire i pezzi (con cipolla, sedano, carota, prezzemolo e finocchio selvatico, nnitu) fino a che non si ottiene il favi a maccu, purea gustosissima cui può essere aggiunta la pasta o il riso; nei ristoranti tipici dell’Italia meridionale viene offerto come macco di fave; faba fracta (spezzata) per i romani e ‘fava menata’ a partire dalla diffusione del volgare.

Nè Scianca (Cucina medievale, Firenze, Olschki 2011), che pure dedica alle favi più di quattro pagine del suo repertorio, nè Anna Martellotti (Firenze, Olschki 2012, p. 68), che definisce il macco ‘una preparazione di purè di fave più dialettale che regionale”, si sono occupati di rintracciarne l’origine; Rohlfs ha proposto una molto improbabile derivazione dal latino maccus, inesistente in latino se non come maschera comica dell’atellana, che poco o niente ha a che fare con le favi.

Ci aiuta invece mmaccari (gr. máchomai), dim. mmacculiari, vincere, abbassare: mmaccàu la crista (ha abbassato la cresta), ‘nci mmaccaru l’agghi (gli si sono abbassati gli agli, metafora della superbia in quanto l’aglio ha lo stelo dritto e alto), mi mmaccàu lu duluri (mi si è abbassato il dolore), mi mmacculiàu lu duluri (mi si è abbassato un poco il dolore). Da mmaccàri deriva anche la parola summàccu che comunemente indica lezione salutare, botte date da una persona più forte (un genitore) o da tante persone in una volta: era un grandi scostùmatu e li carbinèri nci dèsiru lu summaccu (era un gran scostumato e i carabinieri gli hanno dato il sommacco) oppure Ruppisti la bùmbula? Ora to mamma ti duna lu summaccu (Hai rotto l'orcio? Ora tua madre ti dà il sommacco); tutte le parole rimandano dunque allo schiacciamento e alla battitura che, a sua volta, richiama la faba fracta o menata di cui abbiamo detto sopra.

Le favi sono, in conclusione, un cibo importante per il popolo ma guardato con sospetto dalle classi aristocratiche e dai capi religiosi: da Pitagora, che ne aveva interdetto il consumo tra i suoi allievi, ai mistici come Savonarola che definisce le favi ‘pasto da villano’.

Quanto sopra perché mangiare favi, sia fresche che cotte, provocava ‘l’inconveniente generalmente deprecato dell’eccessiva ventosità che provoca fastidiose flatulenze’ (Scianca, 224) che certo distraevano dalle funzioni religiose e spesso le interrompevano, determinando il riso degli astanti; per non parlare del caso in cui il rumore molesto veniva dal pulpito o dalla sacrestia.