IL FILM. The Hateful Eight e la Giustizia

IL FILM. The Hateful Eight e la Giustizia

tarnt   di ANTONIO CALABRÒ

- Il nuovo film di Tarantino, oltre ad essere come di consueto una grande prova d’autore, fornisce spunti di riflessione filosofica su uno dei problemi che più attanaglia la società contemporanea: la giustizia e la pena da infliggere ai colpevoli.

La vicenda è semplice e ricalca, con citazioni raffinate, episodi già trattati notevolmente sia nel cinema che nella letteratura; ma Quentin Tarantino non si limita a citare, bensì arricchisce con genio, fantasia, profondità, e in più integra, modernizza e divaga utilizzando a profitto della storia la sua grande capacità di sorprendere. Come al solito, cela tra le pieghe della trama pensieri di carattere universale, che scaturiscono da banalità umoristiche o da azioni cruente. Un genio, ma questo lo sapevamo già.

Il manipolo di attori del film, la solita banda di amiconi che il nostro si porta dietro da inizio carriera, offre una prima parte recitativa di altissima qualità; la matassa si dipana con pallottole dum-dum e veleno squassante, ed il tempo viene scandito dalle botte che la protagonista subisce quasi senza batter ciglio. La bufera infuria per tutta la durata del film, mescolandosi con le musiche di Morricone, la violenza illumina l’azione con scene audaci e crudeli. Una violenza da macchietta, effetti sanguinolenti più da circo e da clown che da splatter, il solito trucco di spingere al paradosso estremo gli effetti della forza bruta. Tarantino si fa beffe di ogni eroe, svela l’inganno cinematografico con barili di sangue- vernice, sghignazza e ride della morte superandola di slancio.

Il dilemma più importante dell’opera, che si risolve alla fine con una scena degna di restare negli annali del cinema, riguarda però la giustizia e la pena, temi affrontati spesso dal regista italo-americano. E qui si apre il confronto con una società, quella americana, che sembra distante secoli dalla nostra. Razionalismo e funzionalismo contro la teologia politica della spirituale Italia. Carne, sangue e nervi contro anima, perdono e redenzione. Logica contro speranza.

Il problema della pena è sempre lo stesso: deve essere di tipo “utilitaristico”, cioè alla fine deve tendere a rendere migliori sia i colpevoli che gli altri (il carcere ha, o dovrebbe avere, una funzione rieducativa), oppure deve essere “retributiva” cioè il colpevole deve pagare i suoi torti a prescindere dalle conseguenze? La questione non è semplice, ed apre un dibattito di non facile soluzione. Tarantino taglia la testa al toro ambientando la sua storia nel West selvaggio, quella frontiera epica così simile alla civiltà senza maschere.

L’unica pena possibile per criminali come la protagonista del film è naturalmente la morte. Non è ammissibile la sua eventuale rieducazione. Sarà lo stesso Stato a prendersi cura di lei, e lo farà in modo “utilitaristico”, perché la sua pubblica esecuzione renderà migliori tutti: lei, colpevole, perché cesserà di esistere, e gli abitanti della cittadina, che trarranno beneficio dalla sua dipartita. Attenzione: ciò non significa affatto che la storia sia un spot favorevole alla pena di morte, anzi proprio per sottrarsi a questo rischio è ambientata nel Far-West. Il distinguo è tra il morire secondo le regole fissate dai principi di uno stato organizzato, o morire per un evento caotico dovuto alla natura stessa dell’uomo.

Una natura che non ha nulla di lacrimosamente pietoso o comprensivo. Nietzsche abbraccia Quevedo, l’uomo è una perenne tigre che ha perso (o nascosto) la coda, la convivenza è una forzatura sotto la quale arde possente il fuoco del primitivismo ancestrale. L’uomo brucia nei suoi desideri pazzi, e la sua immane voglia di farsi dio, di esercitare il dominio, di possedere ogni cosa, vengono tenuti a bada solo dall’esistenza della legge, che è ombra della giustizia, e dalla paura della pena.

Il film risolve il problema tramite Immanuel Kant, ed un suo aforisma forse reazionario o forse solo troppo logico per noi spirituali italiani: “Chiunque abbia commesso un omicidio, deve morire.” (La metafisica dei costumi, 1797). Tarantino aggiunge anche un “come” deve morire. Il suo è il sarcasmo illuminato dell’animale che ha smesso di guardare il cielo e di vederci angioletti svolazzanti.

La sua è ragione pura, che tramite il cinema, diventa divertimento, gioia, allegria, godimento culturale. Arte, ecco la parolina magica, che definisce Quentin Tarantino e le sue opere.