IL DIBATTITO. L’identità calabrese tra realtà e stereotipi

IL DIBATTITO. L’identità calabrese tra realtà e stereotipi

identità1   di DANIELE CASTRIZIO

- Capita nella vita che uno partecipi a un dibattito pubblico e si rammarichi che esso finisca troppo presto, vista la qualità dei presenti, del pubblico e della tematica. È quello che è capitato a me, qualche sera fa, nell’evento introduttivo di Calabria d’Autore, con Aldo Varano, Teresa Timpano e il sottoscritto, convocati (no, meglio: arruolati!) dal “Capitano” Antonio Calabrò e dal suo splendido e affiatatissimo staff.

Il tema della serata verteva sull’identità del popolo calabrese: come si intuisce, vista la complessità dell’argomento, più che di un dibattito ci sarebbe stato bisogno di un seminario accademico, di un intero corso universitario. Io e gli altri amici sul palco ci siamo difesi, cercando di dire la nostra per stimolare una riflessione collettiva, ma il tempo, come al solito, è stato tiranno, e tutto è evaporato troppo presto, almeno nella mia percezione. Per questo motivo, e perché ciò che è stato detto continui a portare frutti e ad animare discussioni meno becere della formazione della Reggina, dell’ultimo modello di SUV o della quotazione del Real Madrid sui siti di scommesse, mi sono risolto a scrivere a Zoom Sud per tentare di scrivere ciò che il tempo non mi ha permesso di esprimere a voce.

Nel dibattito, almeno per come l’ho percepito io, si sono delineate due diverse posizioni, apparentemente in contrasto, ma in realtà più vicine di quanto si possa pensare. Tra il pubblico, probabilmente, qualcuno avrà potuto credere che il concetto stesso di identità del nostro popolo sia una specie di relitto dei tempi andati, una zavorra inutile di cui disfarci, in nome del “progresso”, della “globalizzazione”. Tutto ciò può essere, e lo ammetto in quanto vero e proprio “fossile” vivente. Figurarsi: docente universitario e prete ortodosso! Un tirannosauro ha più appealing di me!

Però, per rilanciare la discussione, vorrei fare una proposta di cambiamento dei termini utilizzati ed esprimere un concetto sul quale mi piacerebbe ascoltare vari pareri. La proposta è quella di distinguere tra identità e stereotipo. Che il calabrese sia testa dura, il genovese avaro e il piemontese falso e cortese non attengono all’identità, ma agli stereotipi! Ovviamente, quindi, gli stereotipi sono solo stupidaggini senza senso, generalizzazioni, etichette appiccicate addosso alle persone per denigrarle. Basta questa considerazione, a mio avviso, per fare piazza pulita di ogni equivoco, perché, checché ne possano pensare i “talebani dell’illuminismo” (il sonno della ragione genera mostri, ma l’eccesso di razionalità genera crociate e jihad), categoria fortunatamente assente al dibattito, l’identità di un popolo è fondamentale per guidare i processi di cambiamento e per dare a esso consapevolezza della dignità cui ha diritto.

Cosmopolita ma non apolide, come ho avuto altre volte di affermare pubblicamente: alla tavola imbandita della globalizzazione io vorrei portare i miei prodotti locali, le mie specialità. Metaforicamente: il bergamotto, la liquirizia, le produzioni intellettuali della nostra cultura. Non accetto di fondermi in una generica identità occidentale, per il semplice motivo che essa non esiste. Ci sono due occidenti, quello vichingo-germanico e quello greco-romano: uno ha portato alle Crociate, alle guerre continue, all’Impero Britannico e a quello americano, al saccheggio sistematico delle risorse del mondo intero, alla fame del mondo, alle frontiere con i muri e il filo spinato; l’altro ha ideato un esercito che esiste solo per la difesa delle famiglie, l’integrazione, la tolleranza religiosa, il teatro, la danza, la filosofia, lo sport, il Partenone. Io sono fiero di essere un greco di Calabria, un calabrò, un romeo. Quando vado a scavare in Egitto, mi rendo conto che quel popolo sa bene che noi calabrò (il mio soprannome sullo scavo è “el rumi”, il romeo) non abbiamo mai fatto una guerra di aggressione contro di loro, nel corso di secoli e millenni, e che abbiamo integrato (e integriamo ancora) i loro emigranti. È un credito politico che abbiamo accumulato grazie alla nostra Storia e alla nostra Cultura. I Bronzi di Riace, opera di Pitagora di Reggio (come confermato e ribadito anche dalle recenti analisi della terra di fusione posta all’interno delle statue) sono l’emblema della nostra cultura raffinata, che ha insegnato al mondo la civiltà … almeno prima dell’avvento al potere dell’ignoranza anarcoide, che ha preso il cuore di Reggio, ma, spero, non in maniera irreversibile.

Vorrei concludere con una riflessione: se rinneghiamo la nostra identità, la mia sarà l’ultima generazione di Greci di Calabria, e già, guardando mia figlia, vedo in lei una americana di Calabria, pronta a portare la sua intelligenza e i suoi talenti per arricchire qualche comunità di germani del Nord. Questo avviene nonostante la generazione presente, dopo un millennio di schiavitù sotto i barbari, abbia adesso la possibilità di rialzare la testa. Noi che potremmo riprenderci l’orgoglio di popolo, saremo quelli che affosseremo la nostra identità di greci di Calabria. L’olocausto culturale cui siamo stati sottoposti, alla stessa stregua dei pellerossa americani, avrà finalmente la sua conclusione e saremo stati totalmente omologati. Questo avverrà proprio ora che abbiamo gli strumenti culturali e la libertà di potere pretendere di riappropriarci delle nostre radici e di tenere noi la barra del timone per dirigere la nave della nostra comunità alla ricerca di un porto sicuro, dopo secoli di tempeste in alto mare. Per non tediarvi, in quanto fossile, mi basta fare l’esempio della Chiesa greca che è stata costruita a Reggio dopo mille anni di persecuzioni: dove sono coloro che si sentono greci di Calabria? Perché non si riconoscono nell’unico segno identitario che è ancora in piedi? I Greci non si fecero omologare dai Turchi ottomani perché compresero il valore della loro identità, salvaguardata dalla Chiesa Ortodossa. La Storia esige sempre coraggio e chiarezza di scelte …

Chiudo ricordando la frase con cui Mimmo Martino, mai abbastanza compianto, era solito porre fine ai concerti dei Mattanza: “un popolo senza storia è come un albero senza radici: è destinato a cadere”.