LA PAROLA e LA STORIA. Fera

LA PAROLA e LA STORIA. Fera
fieraCalabria  Fera, dal latino classico feriae-arum, giorni in cui non si lavorava per festeggiare qualche divinità (famose le Feriae Augusti in onore dell’imperatore Augusto divinizzato, da cui il nostro ferragosto) o, ad esempio, il termine dei lavori di mietitura (feriae messium).

Attraverso il tardo latino feria si è passati a una serie di parole, non solo romanze (it. Fiera, franc. Foire, spag. Feria, cat. Fira, port. ing. Fire ) tra cui la fera calabrese, che indicano un grande mercato a cadenza annuale ( ted. Yahrmarkt) spesso abbinato ad una festività religiosa, nel quale convenivano compratori e venditori da luoghi disparati anche internazionali.

Le fiere più importanti nella storia dell’Occidente sono quelle che, nell’area di Champagne tra Francia settentrionale e Fiandre, portarono allo sviluppo delle tecniche mercantili e degli scambi col Medio ed anche con l’Estremo Oriente.

Le Fiere di Champagne avevano due date per ogni città (la fiera fredda in primavera e la fiera calda in estate); così i mercanti, che salivano per via fluviale dal Mediterraneo, avevano la possibilità di ripercorrere a ritroso e proficuamente la strada che li riportava ai porti donde erano partiti.

Nelle fiere calabresi, per lo più primaverili ed estive, i contadini compravano l’indispensabile (attrezzi, contenitori di canna e latta, tessuti, etc.) e portavano a vendere il bestiame (da tiro, vaccino e minuto).

I grandi mercanti giravano contornati di collaboratori e nullafacenti; concluso l’affare continuavano il giro non prima di aver bollato, con colpi secchi sul garrese o sulle cosce di un marchio a manico con le loro iniziali, il bestiame comprato.

I verbi che più circolavano (prima, durante e dopo le fiere) erano Tirare e il suo sinonimo Sciuppari, (> ex-capere, letteralmente ‘strappare’). Il venditore cercava di ‘tirare’ più in alto possibile il prezzo e il compratore cercava di ‘tirare’ la bestia al prezzo più basso: èramu fermi eu a centucinquanta e iddhu a centuvinti; a la fini, tira ccà e tira ddha, nci sciuppai n’atri decimilaliri (eravamo fermi io a centocinquantamila e lui a centoventi, ma a forza di contrattare, gli ho strappato altre diecimila lire), voliva pe’ forza centu ma nc’a sciuppai pe’ novanta.

Quando le volontà di compratore e venditori non si incontravano poteva entrare in azione u Sensali (dall’ar. Simsar, mediatore), in genere una persona carismatica non di rado uno ‘ndranghetista, che limava il prezzo favorendo la compravendita; per tale attività percepiva a sensalìa, una quota del prezzo combinato a carico di entrambi i contraenti.

La sensalia funzionava anche fuori della fiera, dovunque e in tutte le occasioni in cui c’era concludere un contratto e i contraenti avevano difficoltà a chiudere al trattativa.

Importante molto antica era la Fera della Cappella che si teneva, e si tiene tutt’ora, nella frazione San Pantaleone di San Lorenzo, a 550 metri di quota e a ridosso di piccolo insediamento monastico risalente in età bizantina, nei giorni successivi al 10 agosto.

Nella chiesa vi si conserva e si adora un importante icona che riproduce la Madonna (Panaghìa >pan-aghé, la Santissima) “… Assisa su un trono ligneo, di cui si scorge il bracciolo sinistro in prospettiva, è avvolta da un mantello azzurro decorato da fiori quadrilobati … La testa è coperta da un velo e dal mantello fiorato, dietro il quale compare l’aureola decorata a rilievo (E. Nucera, Archeologia in Aspromonte, Reggio Calabria 2011, p.112).

Il posto si trova lungo ‘a via ‘i Riggiu’ che da Bova portava nel capoluogo passando per Amendolea, Condofuri, San Pantaleone, Lànzina, Bagaladi, Cardeto; via alternativa alla costa, sempre insicura per la presenza dei pirati, che si percorreva in alcuni giorni e che ai residenti appariva lunghissima: Mi ti cuntu li me guai alla Mèrica nci voliva a via i Riggiu: “Per raccontarti le mie peripezie in America era necessario che percorressimo assieme a via i Riggiu!”, mi diceva mio Zio Nino buonanima.

Altre fiere importanti nella Calabria grecanica erano quelle di Porto Salvo a Mèlito e di San Pasquale a Bova Marina: fericeddhi, cioè piccole fiere, erano quelle di Lànzina a metà Valle del Tuccio e quella di Arcina lungo la costa di San Lorenzo Marina.

Per la localizzazione delle fiere era stata importante che il luogo fosse ampio per disporvi senza difficoltà il bestiame e la mercanzia; a volte si tenevamo sul greto delle fiumare ma si racconta che a Prunella una piena improvvisa disperse molti animali e le persone riuscirono a salvarsi a stento.

Alla fera si andava non solo per comprare e vendere ma anche per conoscere incontrare persone, per bere il quartino spillato dal barile (i macri piu diceva un cartello che mi è rimasto in mente dall’infanzia e che col tempo ho imparato a decifrare, mbìvinu li grandi > bevono i grandi), per comprare li nzuddhi (dolci dalla pasta molto elaborata, con tanto miele) anche quelle durissime di Seminara o la cìceri calia (cioè i ceci abbrustoliti, dal verbo arabo qala, arrostire), le gazzose (con la pallina, a limone e al caffè, rinfrescate a mezzo del contatto con le balle di ghiaccio ottenuto con l’interramento invernale della neve) o, in autunno, i cachì che per i calabresi erano frutti esotici.

Naturalmente occorrevano dei soldi, magari pochi, ma occorrevano: perché, insegnava il proverbio, cu va a la fera e no leva tarì / va cu na pena e torna cu trì!

Non solo per chi andava alla fiera ma anche per chi rimaneva a casa e che s’aviva a gabbari, cioè occorreva gratificarlo con qualche muchiunerìa, piccole cose anche dolci (confetti, caramelle, cioccolatini) di cui andavano ghiotti i bambini; muchiùni era infatti chi si nutriva di cose dolci e delicate che, però, non riempivano la pancia.