Una volta impastata la ‘massa’ la si lascia riposare avvolta in uno strofinaccio. Dopo poco più di un’ora due persone si mettono ai capi di un prastile (spianatora) e una di esse si dedica alla filatura della pasta e al taglio del filo (lunghezza poco più di cinque-sei centimetri): si ottengono così le cordeddhe (cordicelle) che vengono messe in fila a disposizione di colui che ‘cava’ i maccheroni.
Il verbo cavari indica dunque l’azione della massaia che attorciglia e spiana la cordeddha attorno a un ferro di calza o a una cannula sottile di ‘ampelodesmo’ (cannici) ottenendo così la pasta compiuta, con all’interno un buco che è essenziale per l’assorbimento del sugo.
Le massaie calabresi, specialmente d’estate e quando non avevano tempo per la ‘cavatura’, usavano le cordeddhe come base per piatti conditi con la verdura, specie con le melanzane fritte e poca salsa di pomodoro.
Una volta ‘cavati’ i maccarruni vengono posti ad asciugare sopra una tovaglia (mpenduti, appesi ad asciugare) prima di essere calati nell’acqua bollente per la cottura che può avvenire anche 24 ore dopo il confezionamento.
Una brava massaia riesce a cavare tutti i maccheroni della stessa dimensione o quasi ma, talvolta, qualcuno può venire più corto e malu cavatu; curtu e malu cavatu si dice anche di persona bassa di statura e di cattiva indole.
Un altro difetto grave del maccarruni è quello di venire senza buco e maccarruni senza pirtusu, appunto ‘senza buco’ (dal franc. pertuis, da cui derivano i verbi calabri mpirtusari, cu sapi undi a mpirtusasti ‘chissà dove l’hai nascosta, imbucata’, e spirtusari < ex-pirtusari, cavare dal pertugio, che non figurano nel gallico idioma) o anche ‘maccarruni scundutu’ si dice di persona che non ha preso il condimento e quindi è ‘insipido’ senza il sale del sapere, fessacchiotto.
Con il passare del tempo l’epiteto ‘maccarruni’ rivolto ad una persona, anche se privo dell’aggettivo scundutu o della perifrasi ‘senza pirtusu’, risulta in ogni caso peggiorativo e, come l’italiano ‘lasagnone’ derivati anch’essi dalla pasta fatta in casa, indica persona alta e scoordinata.
L’italiano gnocco, riferito a persona alta e non molto intelligente, fa riferimento allo ‘gnocco lungo’ pasta di casa senza uova usata nella cucina laziale; ma esiste, non solo nel Lazio, un’accezione volgarotta e positiva della parola (specialmente al femminile gnocca, vulvona, bella donna) per indicare un soggetto dal fisico eroticamente straripante.
Il calabrese presenta l’aggettivo, anche sostantivato, gnòcculu-a che indica una persona furbastra: vàtindi gnòcculu ch’eu su cchiù gnòcculu di tia, stai alla larga furbo che io sono più furbo di te.
Il condimento ideale per i maccarruni è fatto con la carne di maiale o vaccina ma d’estate era, ed è ancora per gli intenditori, insostituibile la carne di capra, specialmente nell’Aspromonte dove una volta l’allevamento caprino era predominante; sicché si combinavano, quando per le occasioni importanti non si andava al ristorante, l’amido del grano duro con le proteine della carne ottenendo un piatto unico gustoso e saziante.
Il sugo ottenuto con la cottura della carne caprina, in realtà bollita alla pecurara in acqua abbondante con tutti gli aromi tradizionali ed anche la ruta e il finocchio selvatico (nnitu, aneto) fino ad ottenere un condimento ristretto e tendente al marrone, diventava accoglieva raramente il pomodoro che era un condimento estraneo alla tradizione contadina.
Complemento indispensabile della pasta e carni, di cui i maccaruni c’a carni i crapa costituivano la declinazione fondamentale, era il formaggio abbondantemente spolverato: un mio cugino boviscianu diceva che doveva passarci sopra la gatta, al formaggio grattugiato, e lasciare l’impronta dello zampino.
Nci cadiu u formaggiu nt’e maccarruni è espressione che troviamo anche in italiano e negli altri dialetti ed è una reminiscenza di un periodo in cui, nella Napoli post-rinascimentale, l’unico condimento dei maccheroni era il cacio dove venivano precipitati per il ‘sine qua non’, come dicono i gastronomi:
...ll’è caduto / lo vruoccolo a lo lardo, / lo maccarrune dinto de lu caso (G.B. Basile, citato a p. 345 di E. Sereni, Terra nuova e buoi rossi, Torino, Einaudi, 1981).
L’etimologia della parola, definita giustamente come dotta ma strampalata la proposta di derivazione dall’aggettivo greco makarios, beato, (Sereni, p. 337, anche se a molti intenditori non sarebbe dispiaciuta l’aggiunta alle beatitudini evangeliche di una ulteriore dedicata a coloro che gustano i maccheroni con la carne di capra nel mese di agosto), è da collegare “… alla radice medesima da cui il latino medievale maccum e l’italiano macco ‘polenta di fave’, e che ha, in latino e il altre lingue arioeuropeee, il valore di ‘battere, impastare’ … perché i maccheroni si fanno … collo spianare, e in un certo modo ammaccare la pasta … e così saranno detti maccarune … cioè una quantità di pasta a foggia di macco (Sereni, 332).
E tra le lingue ario europee aggiungiamo pure il greco classico che con màchomai ha dato luogo al calabrese ‘mmaccari’.