“La medaglia del rovescio”, pubblicato dal mio grande (in tutti sensi) amico Paolo Falzea, è un libro godibilissimo scritto magnificamente da una scrittrice che possiede le tre principali doti del grande umorista: la sagacia psicologica, l'ironica indulgenza e la tenera malinconia, in più fatemi sdoganare, e tra un po’capirete perché, la tanto bistrattata nostalgia che ormai, chissà perché, è relegata nell’elenco delle pratiche da evitare. Le pagine di Tizianeda mi hanno fatto riaffiorare alla mente l'agilità, l'entusiasmo e la verve di una grande giornalista, Donata Kalliany, oggi pimpante settantaseienne, che negli anni ’80 tenne rubriche memorabili su “Amica”, “King” e “Moda”. Tra le sue parole, intrise di scoppiettante quotidianità, affiorano i ricordi, i fatti, le dinamiche di un invidiabile rapporto di coppia (mitica la figura dello “sposo errante”) e numerosi irresistibili sketch di vicende infantili e adolescenziali. La sua scrittura in prima persona prende forma narrativa e, tra battute, gag e calembour, la funambola (come ama definirsi, anche ossessivamente, Tiziana) diventa una scrittrice coi fiocchi che consegna alle stampe un irresistibile monologo-fiume comico, tenero, dissennato, umano. Memore dell’ammonimento del nostro grande maestro Marcello Marchesi (“È sbagliato raccontar le favole ai bambini per ingannarli, bisogna raccontarle ai grandi per consolarli”), Tiziana si guarda bene dal cadere nella classica trappola della mamma-scrittrice-modello-inventa-favole, e si rivolge a tutti i lettori, ai quali, come diceva Umberto Eco, bisogna dare ciò che non sanno di volere.
Tra i compiti dello scrittore c’è anche quello di inventare nuovi linguaggi che, però, non debbono crearsi meccanicamente sulla base di chissà quali analisi astruse; è sufficiente che siano espressione dell’unico gusto che lo scrittore può conoscere davvero, cioè il suo proprio. Ed il gusto di Tiziana è raffinatissimo, a prova di palati esigenti. Il successo di questo libro, che supera con nonchalance anche l’handicap di una copertina non proprio fulminante, dimostra che per uno scrittore che narra col cuore e con mano libera e serena, c’è sempre la possibilità di pubblico, senza bisogno di ricorrere agli artifizi di maghi e maghetti o alle sfumature multicolori intrise di scene bollenti di matrice catto-pornografica.
E veniamo ora alla parte più difficile di questa recensione e a quella nostalgia di cui parlavo prima; in questo libro ci sono io e non metaforicamente, ma in carne ed ossa. Conosco bene la famiglia d’origine (ramo materno, ma anche un po’ quello paterno) di Tiziana, ma la differenza d’età intercorrente tra noi non mi faceva nemmeno immaginare che potessero esistere ricordi comuni così vividi. Grande è stata l’emozione quando la coinvolgente penna di Tiziana mi ha catapultato dentro Casa Scalfari di via Marvasi, dentro la quale sono materialmente nato (negli anni ’50 si nasceva ancora tra le mura domestiche, e i miei genitori erano inquilini degli Scalfari), facendo materializzare davanti ai miei occhi, come un ologramma, la figura di sua nonna Bianca e della figlia Mara, madre di Tiziana, con tutti i profumi e le atmosfere e, soprattutto, con quella statuetta di San Francesco di Paola inserita dentro una campana di vetro e posta sopra una colonna al fianco di un enorme armadio a specchio “…che se aprivi l’anta cigolava… uno specchio che deforma la figura e la nonna diceva che se ci guardavi troppo, potevi vedere il diavolo”. Tiziana dice che il diavolo non l’ha mai visto nessuno lì dentro, ma a me quello che faceva paura davvero non era il diavolo, ma proprio quel San Francesco, che mi veniva indicato come l’inesorabile e spietato giudice della mia discolaggine.
Impareggiabile anche la descrizione del quartiere, nel quale “si conoscevano tutti e tutti avevano rapporti cordiali” e la figura mitica (almeno per me e Aldo Varano, altro abitante del quartiere, con il quale ne abbiamo parlato di recente) di “una prostituta ormai in pensione”. “Era lì da sempre. Il mestiere della donna, i nipoti della nonna Bianca, lo hanno scoperto molti anni dopo. Per loro era solo una donna dagli orecchini d’oro che le pendevano dai lobi molli tirati giù dalla vecchiaia, i capelli ostinatamente neri, il viso lungo e ossuto, le labbra cadenti e violacee, la pelle spessa e scura e una voce che pareva arrivasse da mondi lontani e di tenebra”. Se Tiziana avesse pubblicato una foto di quella donna, non avrebbe sortito lo stesso realistico effetto, “La sua casa era una stanza di oggetti e mobili ammassati, con un letto enorme e prepotente a occupare quasi l’intero spazio. C’era sempre un odore strano, di polvere e muffa, un odore di scatola di cartone bagnato, incollato alle cose e alla carta da parato fiorata. Il quartiere era accogliente e le donne timorate di Dio e frequentatrici assidue di chiese e rosari, mostravano affetto e solidarietà per quella donna così diversa da loro e con una vita affatto scontata, che aveva conosciuto le nudità di molti uomini”. Tiziana maneggia abilmente la forza evocatrice della grande narrativa a conferma delle sue grandi doti di scrittrice e fa bene a prendere le distanze da quella “rovina famiglie” di Virginia Woolf quando, a pagina 35, scrive della possibilità di “essere donna senza una stanza tutta per sé dentro la quale a volte scomparire… insomma, dentro questo frullatore (della quotidianità), il prodigio succede”.
Tiziana Calabrò, La medaglia del rovescio, Falzea Editore, 2016.
Tra i compiti dello scrittore c’è anche quello di inventare nuovi linguaggi che, però, non debbono crearsi meccanicamente sulla base di chissà quali analisi astruse; è sufficiente che siano espressione dell’unico gusto che lo scrittore può conoscere davvero, cioè il suo proprio. Ed il gusto di Tiziana è raffinatissimo, a prova di palati esigenti. Il successo di questo libro, che supera con nonchalance anche l’handicap di una copertina non proprio fulminante, dimostra che per uno scrittore che narra col cuore e con mano libera e serena, c’è sempre la possibilità di pubblico, senza bisogno di ricorrere agli artifizi di maghi e maghetti o alle sfumature multicolori intrise di scene bollenti di matrice catto-pornografica.
E veniamo ora alla parte più difficile di questa recensione e a quella nostalgia di cui parlavo prima; in questo libro ci sono io e non metaforicamente, ma in carne ed ossa. Conosco bene la famiglia d’origine (ramo materno, ma anche un po’ quello paterno) di Tiziana, ma la differenza d’età intercorrente tra noi non mi faceva nemmeno immaginare che potessero esistere ricordi comuni così vividi. Grande è stata l’emozione quando la coinvolgente penna di Tiziana mi ha catapultato dentro Casa Scalfari di via Marvasi, dentro la quale sono materialmente nato (negli anni ’50 si nasceva ancora tra le mura domestiche, e i miei genitori erano inquilini degli Scalfari), facendo materializzare davanti ai miei occhi, come un ologramma, la figura di sua nonna Bianca e della figlia Mara, madre di Tiziana, con tutti i profumi e le atmosfere e, soprattutto, con quella statuetta di San Francesco di Paola inserita dentro una campana di vetro e posta sopra una colonna al fianco di un enorme armadio a specchio “…che se aprivi l’anta cigolava… uno specchio che deforma la figura e la nonna diceva che se ci guardavi troppo, potevi vedere il diavolo”. Tiziana dice che il diavolo non l’ha mai visto nessuno lì dentro, ma a me quello che faceva paura davvero non era il diavolo, ma proprio quel San Francesco, che mi veniva indicato come l’inesorabile e spietato giudice della mia discolaggine.
Impareggiabile anche la descrizione del quartiere, nel quale “si conoscevano tutti e tutti avevano rapporti cordiali” e la figura mitica (almeno per me e Aldo Varano, altro abitante del quartiere, con il quale ne abbiamo parlato di recente) di “una prostituta ormai in pensione”. “Era lì da sempre. Il mestiere della donna, i nipoti della nonna Bianca, lo hanno scoperto molti anni dopo. Per loro era solo una donna dagli orecchini d’oro che le pendevano dai lobi molli tirati giù dalla vecchiaia, i capelli ostinatamente neri, il viso lungo e ossuto, le labbra cadenti e violacee, la pelle spessa e scura e una voce che pareva arrivasse da mondi lontani e di tenebra”. Se Tiziana avesse pubblicato una foto di quella donna, non avrebbe sortito lo stesso realistico effetto, “La sua casa era una stanza di oggetti e mobili ammassati, con un letto enorme e prepotente a occupare quasi l’intero spazio. C’era sempre un odore strano, di polvere e muffa, un odore di scatola di cartone bagnato, incollato alle cose e alla carta da parato fiorata. Il quartiere era accogliente e le donne timorate di Dio e frequentatrici assidue di chiese e rosari, mostravano affetto e solidarietà per quella donna così diversa da loro e con una vita affatto scontata, che aveva conosciuto le nudità di molti uomini”. Tiziana maneggia abilmente la forza evocatrice della grande narrativa a conferma delle sue grandi doti di scrittrice e fa bene a prendere le distanze da quella “rovina famiglie” di Virginia Woolf quando, a pagina 35, scrive della possibilità di “essere donna senza una stanza tutta per sé dentro la quale a volte scomparire… insomma, dentro questo frullatore (della quotidianità), il prodigio succede”.
Tiziana Calabrò, La medaglia del rovescio, Falzea Editore, 2016.