A me sembra definibile come un libro-fiume, in cui rivi immissari portano acqua alla storia centrale che scorre placida, ma snodandosi con varie insenature, riempie laghi, alcuni più grandi altri più piccoli, si diffonde in fiumicelli emissari che aprono altre prospettive e non ha una foce perché non ha una sorgente.
O, meglio, la sua sorgente, il suo centro e la sua finalità, e, quindi, l’intercambiabilità tra sorgente e foce, stanno tutti nello stesso dar corpo al mondo immaginario dell’autore. La fantasia di Enrico Costa, nutrita di una cultura poliedrica (la lunga esperienza di professore d’urbanistica; l’amore per l’opera lirica; le approfondite conoscenze letterarie e musicali; il gusto della bellezza, che sia quella di un verso, di uno scorcio paesaggistico, di un dolce; l’affettuosa curiosità verso tutto ciò che è umano) è corroborata da un’ironia ora divertita ora pungente e da un eloquio senza peli della lingua ma sempre elegante.
Su un grande palcoscenico ideale, che va da Napoli ad Algeri, si svolgono, intrecciandosi ma senza unificarsi in un posticcio lieto fine, due opere rossiniane, Il turco in Italia e L’italiana in Algeri: “Due persone fascinose, Isabella e Selim. Personaggi dal carattere romantico, fra emozioni e passioni, il mondo per loro non ha confini. Protagonisti di due storie parallele e speculari, una donna e un uomo che si sarebbero piaciuti all’istante e forse anche amati, se soltanto coloro che li hanno narrati li avessero fatti incontrare almeno una volta. Non fu così e non è stato giusto.”
La rivisitazione dei libretti delle due opere si arricchisce, via via, di riferimenti a favole, a miti, a storie scritte in altri tempi e in altri contesti, ma sempre all’interno dell’ambiente geofisico, culturale, antropologico di un Mediterraneo lontano dalle crociate e “dove non ci sono sbarchi di disperati né affondamenti con morti in fondo al mare, dove nessuno si azzarda a dire: -Vattene a casa tua che qui ci sono nato io, anzi sono fieri, l’italiano e il turco, il turco e l’italiano, di scambiarsi usanze etradizioni, odori e sapori, baci e carezze e perfino onorificenze.”
“Attraverso Algeri e Napoli, vivificate dalla musica rossiniana, – scrive Enrico Costa – si scoprirà che tutte queste sorelle affacciate sul nostro mare, quasi mai sono gemelle, e che quando sorelle non sono, sono città figlie degli stessi padri e madri, ma anche dello stesso padre e madri diverse, e viceversa di una stessa madre e padri diversi. Alle volte sono sorellastre o semplicemente cugine, poco importa se strette o lontane. E come accade in tutte le famiglie, queste città sono concorrenti, dominanti o dominate. C’è quella che si sposa e genera città, e quella che rimane zitella e s’isterilisce. C’è quella portata a comandare, e che perciò guida le altre. Poi ci sono la gregaria, la colonizzatrice e la colonia, e questa, in certi casi, diverrà a sua volta colonizzatrice. Sono state città concepite nel calore o nel dolore, durante amplessi infuocati, oppure durante violente scorrerie, e quindi, una volta stuprate, sdoppiate per sicurezza sulle colline con tutto il seguito di figli, anche dopo secoli glielo ricordano bene i colori della pelle e i lineamenti di molti di noi.”
In un’atmosfera fiabesca, i due eroi, Selim e Isabella, “raggiungono in un modo o in un altro lei Algeri e lui Napoli, entrambe città ‘figliastre’ e perciò più ritmate di altre. L’una, ritmata dal suono dei tamburi, è periferia ottomana fra la Sublime Porta su Bosforo e il Sultanato di Granada. L’altra, incessante madre di mille melodie, è figlia indomita di cento e cento padri stranieri.”
Insieme a Selim e Isabella, decine di personaggi, popolano questi viaggi, ricchi di dialoghi e di esperienze. L’autore gioca con protagonisti e comprimari, maneggiando con mano lieve e sicura riferimenti storici, ambienti, umane caratteristiche, e anche ogni possibile nonsense (il libro è pubblicato nella collana: La bottega dell’inutile a conferma dello spirito di intelligente divertimento che lo sottende).
Delle cinquecento pagine del libro, una cinquantina sono direttamente dedicate alla Calabria, ripercorsa da Paola a Reggio Calabria attraverso il diario di Ottavio. Tra gli altri, Ottavio incontra Fabio, il cane sciolto della musica locale: “… questa nostra lingua, pure così poetica e musicale, declassata e condannata a essere chiamata dialetto. (…) le mie canzoni le scrivo e le scriverò solo nella mia lingua, e ce la farò a imporla agli altri, quelli che fanno gli istruiti, nobilastri che se ne stanno a Napoli mentre i nostri padri faticano, e qui sul posto fanno una vita grama spezzandosi la schiena su terre avare che chissà perché sono loro.” Fabio sta facendo “il (…) Grand Tour (…) qui in Calabria, che voglio percorrere tutta, paese dopo paese, borgo dopo borgo, montagna dopo montagna e marina dopo marina. Per conoscerla davvero, per amarla di più. Per quanto merita, per come è e per come potrebbe essere.” Ma, il suo, non si chiama Grand tour, bensì scialaruga:” ’Scialaruga’ sono due parole: ‘sciala’ e ‘ruga’… voglio portare lo ‘scialo’, quella nostra convivialità che i non calabresi neanche s’immaginano nelle ‘rughe’, vicoli e viuzze dei nostri paesi dove la musica altrimenti non arriva.”
*Enrico Costa, Selim e Isabella, Città del Sole, euro 18.00