
Questi dodici racconti – la maggior parte con protagoniste donne, tutti centrati su una realtà sociale marginale, ambientati (meno l’ultimo) in una Calabria mitica, dalla natura fiera e selvaggia, contenitore di passioni ancestrali e diffusa sensualità, e scenografia ideale di un’epopea della povera gente – appartengono ad una raccolta, nota col titolo di quello che li precede e dà il tono, fin dalle prime frasi, a tutto il libro.
«Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro con i lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante».
Gente in Aspromonte, pubblicato da Corrado Alvaro nel 1930 – una delle migliori opere del Novecento italiano – sta alla letteratura calabrese come I promessi sposi stanno a quella nazionale: è un testo assolutamente imprescindibile.
La vicenda – aperta dal già citato, memorabile, incipit e chiusa con una affermazione altrettanto ricordevole: «“Finalmente,” disse, potrò parlare con la Giustizia. Ché ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio!» – è quella del pastore Argirò.
I buoi avuti in custodia da signor Filippo Mezzatesta cadono in un burrone e per Argirò, scacciato dal suo padrone, inizia una via Crucis che lo porta, prima dal fratello del padrone, Camillo Mezzatesta e, poi, dall’usuraio Ignazio Lisca. Il figlio; Antonello, comincia a cogliere il nocciolo della sua situazione – «Per la prima volta capiva di essere in mezzo a qualche cosa di ingiusto; il sentimento della sua condizione gli si affacciò improvviso e chiaro e si sentiva come un angelo caduto.» – mentre il padre sogna che il riscatto sociale gli venga da un altro figlio; Benedetto, avviato a tale scopo al sacerdozio. I figli illegittimi di Filippo Mezzatesta incendiano la stalla di Argirò, provocando la morte della mula, che avrebbe dovuto consentirgli il lavoro come trasportatore di merci. Antonello, che era andato a lavorare in un altro paese per contribuire al mantenimento di Benedetto in seminario, torna a casa povero e malato per l’eccessiva fatica sostenuta in condizioni di fame e brucia il bosco dei Mezzatesta. Fa poi vita da fuorilegge, una sorta di Robin Hood che ruba ai poveri per sfamare i ricchi, finché viene arrestato.
Il mondo di Gente in Aspromonte è spaccato a metà. Da una parte, ricchi, ignoranti e avari dei propri beni e del proprio nome (da cui donne non sposate in quanto considerate socialmente inferiori e figli rimasti a lungo illegittimi); dall’altra, poveri che non si rassegnano ad un destino di vinti, ma percorrono strade senza uscita. Il tentativo del ribaltamento sociale, attraverso la scelta ecclesiastica e/o fuorilegge, fallisce, eppure non tutto resta come prima.
Corrado Alvaro dipinge con sobria passione, con un realismo impregnato di mito e di lirismo, con un amore che si fa stile, un mondo che sembra del tutto immobile, eppure ha in sé fremiti di cambiamento: «Sembra un mondo spento, lunare. (…). È una vita alla quale occorre essere iniziati per capirla, esserci nati per amarla, tanto è piena, come la contrada, di pietre e di spine. (…) È un fatto che qui manca la nozione geometrica della ruota. Ma per poco ancora. Come al contatto dell’aria le antiche mummie si polverizzano, si polverizzò così questa vita. È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie.»