L’ANALISI. La guerra, la Nato e l’ombrello di Berlinguer

L’ANALISI. La guerra, la Nato e l’ombrello di Berlinguer

berlinguer

UNO. L’Italia, dall’inizio della Repubblica ha avuto 67 governi. Quelli formati da un solo partito (monocolori) sono stati una decina, tutti molto brevi e in preparazione di coalizioni. Tutti e sempre presieduti da esponenti della Dc in momenti di grande difficoltà e con la benevola tolleranza dei partiti alleati con la Dc. Oltre 50 governi, dunque, sono stati governi di coalizione, cioè formati da più partiti tra i quali vi erano anche diversità di vedute importanti e posizioni non coincidenti su questo o quel problema. Su un solo argomento, in tutti e 67 i governi,  vi è sempre stato, senza mai alcuna eccezione, accordo tra tutti gli alleati di governo: la politica estera e la collocazione internazionale dell’Italia.

Il passaggio dal Centrismo al centrosinistra fu consentito dal fatto che Pietro Nenni, leader carismatico di quel partito, prima che il Psi andasse al governo, di fronte ai fatti d’Ungheria (siamo nel 1956) aveva restituito ai sovietici di Mosca il premio Stalin ricevuto in precedenza, modificando con quella rottura drastica la collocazione internazionale del Psi (che per questo subì una pesante scissione della sua area in gran parte filosovietica e russofila, il Psiup).

Le stesse dichiarazioni di Berlinguer sulla sua preferenza per una vita sotto l’ombrello protettivo della Nato, rilasciate a Giampaolo Pansa, e molto citate in queste settimane, non furono frasi eccezionalmente “sfuggite” al capo comunista ma il lasciapassare, e forse perfino la condizione indispensabile e necessaria, per poter varare la politica dei governi di unità nazionale (tutti presieduti da Andreotti con l’astensione del Pci, e sempre spingendo  l’estrema destra all’opposizione). La ricostruzione storica sul punto non lascia dubbi: le dichiarazioni sulla Nato di Berlinguer a Pansa sono del 15 giugno 1976; il primo governo di solidarietà nazionale della “non-sfiducia” (reso possibile grazie all’astensione concordata col Pci) nasce il 6 agosto ‘76. Quindi, fatta la dichiarazione sulla Nato Berlinguer passò all’incasso del governo dopo soli 52 giorni, modificando una situazione trentennale. Insomma, non esistono in Italia precedenti di alleanze di governo con posizioni significativamente differenziate sulla politica estera del paese.

DUE. E’ difficile capire se Giuseppe Conte, già due volte presidente del Consiglio di governi consecutivi di orientamento politico uno opposto all’altro, stia seguendo un progetto di rottura della coalizione messa in piedi da Draghi o se si sia convinto che l’unica possibilità di sopravvivenza del suo partito dipenda dall’inseguimento e dalla conquista, in concorrenza con Salvini, dell’elettorato giudicato più vicino a Putin che all’Ucraina. Di certo, le sue posizioni, più nettamente di Salvini, rompono in queste ore lo schema storico per cui i partiti alleati nel governo possono avere tra loro differenze e perfino divergenze su vari temi e problemi tranne che sulla politica estera.

Il leader pentastellato, mai eletto in Parlamento (come Draghi), deve fare i conti con un progressivo e drastico indebolimento della imponente forza con cui 4 anni fa ha avviato la sua esperienza politica. Per di più non può pilotare i parlamentari 5s verso un suo progetto. Gli esperti sostengono che almeno 8 parlamentari 5s su 10 sanno che non saranno rieletti per il combinato disposto tra contrazione dei parlamentari (promossa dai 5s) e caduta libera nei sondaggi per perdita di consenso. Ci sono perfino sondaggisti che giudicato il consenso attribuito a Conte come riflesso della sua esperienza passata di capo di Governo durante il Covid e non come leader di partito e quindi spendibile oggi sul mercato elettorale. Conte può fare dichiarazioni sulla politica estera e chiedere a Draghi di modificarla ma non sembra avere la possibilità di scagliare i gruppi del suo partito. Spara a salve incapace di creare problemi a Draghi perché i pentastellati vogliono durare in carica (regolarmente retribuiti) fino all’ultimo minuto possibile. Uno schema già verificato durante le quirinalizie in cui Conte fu isolato e reso innocuo prima di tutto dal suo partito.

TRE. Quel che è certo, invece, è che sarà difficile che l’inseguimento di Conte dell’elettorato che ha legittimamene perplessità sugli esiti della guerra scatenata da Putin non abbia un effetto tellurico sul “campo largo” che, ancora oggi, è l’asse strategico su cui punta Enrico Letta per le prossime elezioni. Scomparse le vecchie fedeltà ideologiche non sarà facile per Letta convincere una parte rilevante degli elettori del Pd a votare nei collegi maggioritari in cui il candidato sarà espresso dal M5s. Per non dire di altre componenti significative del presunto “campo largo”. Problema analogo si presenta in parte del centrodestra dove non tutti i leghisti voteranno FdI, pronti a ricambiare lo sgarbo verso i salviniani mentre ancora più complesse saranno le decisioni della componente liberale e moderata di Fi e dei gruppi minori di centrodestra. Servirebbe una legge proporzionale o un maggioritario col doppio turno tra i due partiti più votati.

Ma nessuno ha la voglia né la forza per una svolta così complessa. Spetterà a Mattarella, un’altra volta ancora, sciogliere i nodi dopo le prossime elezioni.

*Già pubblicato sul Dubbio