L’arte politica è quella speciale arte che fornisce una rappresentazione e una interpretazione della realtà. Non dice meno tasse per tutti, ma individua le cause della crescita della pressione fiscale (per alcuni) e su come rimuoverle, sugli interessi che è necessario sacrificare per avere una tassazione razionale e socialmente equa. Non promette un milione di posti di lavoro purchessia, ma si interroga su perché non c’è più nelle nostre postmoderne società neoliberali il lavoro con la L maiuscola, il lavoro emancipante scritto a larghe lettere nell’incipit della nostra Costituzione. Non dispensa mance e bonus a ġoġó ma “rimuove - così è ancora scritto nell’art.3 - gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
La dittatura del concretismo è il male oscuro della democrazia italiana, allontana i cittadini della politica perché non offre loro un orizzonte di senso o almeno l’illusione, avrebbe detto Pier Pasolini, di un oggi e di un futuro durevolmente diversi dalla quotidiana rincorsa per la sopravvivenza. Il concretismo ci ricorda continuamente che siamo condannati a elemosinare qualche prebenda, come già accade nella vita di ogni giorno. È noioso e, perciò, se non siamo malati della stessa malattia preferiamo cambiare canale. Vale per la grande politica quello che vale per il grande cinema. "Non giro mai un quadro di vita vissuta - ha detto un giorno Alfred Hitchcock nel memorabile libro intervista a François Truffaut - perché quello la gente può benissimo trovarlo a casa sua o in strada e persino davanti l'ingresso del cinema. Non c'è bisogno di pagare il biglietto per vedere una «fetta» di vita vissuta".
Perché, dunque, oggi, non ci opponiamo al concretismo e non riusciamo a liberarcene, se non solitariamente come scelta personale di esilio volontario dalla democrazia e dalla politica? Perché il concretismo è l’ideologia dominante dei nostri giorni. E ne siamo intimamente complici quando in tutti gli ambiti professionali e lavorativi - dal mondo delle imprese a quello dell’Università e della ricerca - accettiamo la narrazione che tutto ciò che è “teorico” è alla fine dei conti “inutile”. Quando ci sentiamo rassicurati solo ed esclusivamente da chi offre “soluzioni”, da chi ci spiega “il saper fare e “come si fa” (linee guida, decaloghi, manifesti, ricette). E firmiamo volentieri una “delega in bianco” alla tecnologia e all’espertologia, edulcorando questa vera e propria espropriazione del diritto collettivo a decidere sulla nostra esistenza individuale e collettiva (l’ennesima rivoluzione passiva) con il roboante appellativo di “cambio di paradigma”. È questo humus che alimenta e legittima il concretismo e l’utilitarismo in politica, l’azione senza pensiero. I nostri leader (e sempre più spesso anche i nostri media) non sono altro che l’ultimo megafono di questa malattia più profonda, di questo dilagante approccio riduzionistico e semplicistico alle complesse sfide dei nostri tempi. Non portano, in questo senso, la responsabilità principale della caduta della democrazia e della politica a mera “amministrazione dell’esistente”. Vanno, perciò, assolti e, semmai, accompagnati con sguardo compassionevole alla frontiera.
*Ordinario di diritto costituzionale, UniUrbino.