Le elezioni regionali in Lombardia e in Lazio ci consegnano il record assoluto di astensionismo nella nostra storia politica. Percentuali simili non si sono registrate in nessuna elezione per il rinnovo del Parlamento dal Secondo dopoguerra in poi, in nessuna votazione di un sindaco di una grande città, in nessuna altra elezione regionale dal 1970 in poi. Mai si è creata attorno a una istituzione elettiva una tale mancanza di stimoli a partecipare al voto, mai si è registrata una così impressionante mancanza di empatia tra elettori e istituzioni. Chi ha vinto è circondato dall’indifferenza e dalla noncuranza di due terzi della popolazione che andrà ad amministrare. Per parafrasare una famosa frase di Tacito potremmo dire che si è costruito un deserto attorno all’istituto regionale e l’hanno chiamato vittoria.
Non è importante ora provare a capire se tutto ciò sia stato dovuto all’offerta di candidati ritenuti non meritevoli neanche di un voto contrario, o al fatto che si dava così per scontata la vittoria di una parte politica da ritenere inutile il contributo del proprio voto per impedirlo. Nella decisione di astenersi, in genere, le motivazioni possono essere molto diverse, anche se a prevalere è quasi sempre la delusione per la propria parte politica (ritenuta non più all’altezza delle aspettative) o il convincimento dell’inutilità di provare a cambiare la politica con il voto. Cioè, un’astensione di “passione tradita” o di rassegnazione nella possibilità di modificare il corso delle cose. L’astensione di queste elezioni regionali, invece, non appartiene in linea di massima a queste due accezioni, ma delinea un nuovo scenario: l’indifferenza attiva verso la istituzione per la quale era possibile votare. Quindi, non solo un giudizio negativo verso i candidati scelti dai diversi schieramenti politici, ma una freddezza verso la stessa funzione dell’istituzione regionale.
In definitiva, nel momento in cui è in corso in Italia un confronto aperto sulla possibilità di assegnare alle regioni maggiori poteri e competenze in settori nuovi rispetto a quelli già esercitati, nel momento in cui è stato presentato in Consiglio dei ministri un disegno di legge in materia (dopo una gestione extraparlamentare da parte del ministro Calderoli), si registra la più clamorosa distanza dell’istituto regionale dagli interessi della popolazione amministrata. Siamo di fronte a presidenti potenti e a regioni delegittimate, a regioni che dovrebbero trasformarsi in piccoli stati autonomi (spaccando ulteriormente una nazione già segnata da profonde divisioni) senza che siano avvertite come istituzioni imprescindibili per la vita di ogni cittadino.
È indubbio che ha pesato anche la gestione della pandemia, la prova più impegnativa che le regioni hanno dovuto affrontato in 50 anni di vita. Questa prova non è stata positiva per nessuna regione.
Nel periodo 2020/2022 si sono evidenziati in tutta la loro crudezza i macroscopici limiti del regionalismo italiano (al di là della prosopopea efficientista dei loro presidenti, del Nord, del Centro e del Sud) al punto da rendere non rinviabile un’immediata revisione delle competenze attribuite, a partire da quelle in campo sanitario. L’incrinatura della catena di comando, l’esasperante frammentazione di competenze, lo scontro permanente tra poteri centrali e locali hanno determinato una “poliarchia” decisionale che ha inciso enormemente sull’efficienza e sulla prontezza della risposta istituzionale, causando danni enormi all’economia e alle vite umane. Il problema politico al riguardo non consiste nell’assenza di una maggiore “autonomia” (addirittura differenziata tra regione e regione) ma della necessità e dell’utilità delle competenze regionali già esercitate.
In ogni caso, il problema che il grande astensionismo in Lombardia e nel Lazio ripropone è il seguente: si possono dare più poteri a istituzioni i cui elettori le avvertono così inessenziali per la loro vita quotidiana?
*già pubblicato su Repubblica del 14/2/23.