All’inizio le primarie furono soltanto l’ingegnosa invenzione del professor Arturo Parisi per costruire, come lui stesso avrebbe dopo spiegato, il “mito fondativo” dell’Ulivo. Correva l’anno 2005 e i partiti, che avevano già scelto e deciso di puntare su Romano Prodi per battere nel 2006 il centrodestra di Berlusconi, non essendo più nelle condizioni di “portare a Roma”, come si diceva nel linguaggio di allora, un milione di persone per strariempire piazza San Giovanni e incoronare Prodi, esibendo forza e credibilità per vincere, s’inventarono, grazie a Parisi, le primarie.
Oltre tre milioni e mezzo d’italiani, sparsi per tutta Italia, si misero in fila nelle piazze di città e paesi affollando improvvisati seggi elettorali per scegliere – o meglio per dare forza - al candidato che avrebbe dovuto fronteggiare e battere Berlusconi. Insomma, un’operazione per incoronare ufficialmente il già prescelto Prodi. Fu un successo straordinario di partecipazione e passione civile. Ma quell’evento fu, prima di tutto, figlio di un ampio accordo politico tra tutte le forze di centrosinistra e venne preparato da un dibattito ampio di iscritti e militanti per dare vitalità a una strategia capace di smontare il berlusonismo e per dar forza a un progetto politico diverso e vincente.
A ripensarci, dopo tanti anni, quell’operazione fu a rischio zero: in nessun caso sarebbe potuta andar male. Anche se Prodi non avesse vinto lo scontro diretto con Berlusconi, il Pd sarebbe rimasto in piedi come un forte e combattivo aggregato politico di centrosinistra capace di continuare a fronteggiare l’avversario sulla base di progetto e strategia definiti.
Non è così oggi. Le primarie di cui si parla, e ora in corso, non hanno più alcun punto di contatto con quella storia. L’idea di scegliere non il leader di un’alleanza già definita da accordi e dibattiti di militanti e dirigenti, vincolata a un progetto politico, ma il segretario di un partito facendolo votare oltre che dagli iscritti dagli elettori, apre a possibili scontri e rotture. Non con l’avversario politico o con altre componenti del centrosinistra ma al proprio interno perché fenomeno estraneo alla storia e all’esperienza del Pd. Il Pd partito, e il Pd area politica e culturale, sono formati, originariamente, e in gran parte ancora, come una forza politica di ex: ex democristiani, ex comunisti, ex laici e liberali progressisti. Un aggregato di politiche elaborate attraverso militanza, dibattiti, scontri e discussioni tra i gruppi dirigenti e iscritti. Piaccia o no, il miracolo del Pd prima o seconda forza politica del paese in tutte le elezioni fin qui svolte da quando è nato e nell’attuale fase politica, ha questa spiegazione.
E’ curioso, per chi ha conoscenza storica della politica italiana, e dell’area politica di cui parliamo, vedere che il dibattito attorno Bonaccini e Schlein coincide con una discussione su politiche (non solo sensibilità) diverse e non sempre tra loro conciliabili. Non su chi dei due ha maggiori capacità di leader per dare concretezza e far vincere una linea politica e una strategia già decise dal Pd. Da qui la confusione e il mescolarsi rischioso di due diversi partiti: quello degli iscritti e quello, per usare le categorie dei sociologi, a “identità leggera” (copyright, Ilvo Diamanti).
E’ su queste contraddizioni, create dallo stesso Pd, che s’innestano i progetti delle altre forze collocate nella più ampia area del centrosinistra (Renzi, Calenda, Conte, e non solo) che non escludono gravi rotture nel Pd, data la stravagante strategia delle primarie aperte a tutti, e comunque vogliono provare a cannibalizzarlo per sostituirlo. Non è un caso che l’infittirsi della gara/scontro tra Bonaccini e la Schlein abbia paralizzato le altre componenti del centrosinistra in attesa dello svolgimento dei giochi (cioè delle primarie) per decidere dopo come intervenire.
Né è un argomento sostenere che vi siano precedenti dato che già Veltroni e Bersani in passato sono stati eletti segretario con le primarie aperte anche ai non iscritti al Pd. In quei casi, si trattò di operazioni propagandistiche per rafforzarli dopo che erano stati scelti tenendo conto dei rapporti di forza interni al Pd, dai gruppi dirigenti di quel partito e sulla base di discussioni, accordi e progetti che avevano in qualche modo coinvolto i militanti. Insomma, in passato le elezioni del segretario aperte a tutti si erano svolte con la stessa logica del rito politico delle primarie per indicare Prodi rispettando la logica politica di una forza-partito. Ora, invece, lo scenario è quello di uno scontro reale all’interno, uso una categoria elaborata da Bauman, di un partito-liquido.
Che si tratti di condizioni inedite e laceranti che presentano rischi altissimi per la stessa sopravvivenza del Pd, è facile verificarlo ponendosi qualche domanda. Per esempio, se contro tutti i pronostici attuali, dovesse vincere e risultare eletta la Schlein, sulla cui correttezza e lealtà chi scrive non ha alcun dubbio, chi può garantire che una parte degli elettori che hanno scelto Bonaccini non si lasci attirare da altri progetti meno radicali, che al momento esistono nell’area del centrosinistra pur non essendo del Pd? E perché immaginare impossibile che la vittoria di Bonaccini non provocherebbe lo stesso fenomeno o comunque il disperdersi degli elettori della Schlein che se vincesse sarebbe, rispetto al proprio partito, un segretario Pd di minoranza?
*già pubblicato sul Dubbio.