Proponiamo l’analisi dell’ideatore e direttore del laboratorio politico fuoricollana.it Antonio Cantaro, professore ordinario di diritto costituzionale, dell’Università di Urbino, nel numero dedicato a “destre al governo, governo delle destre”.
Grande è lo scarto tra la “poesia dell’interesse nazionale” con cui Giorgia Meloni enfaticamente evoca, in nome di un superiore interesse collettivo, una alterità politico-emotiva rispetto agli interessi particolari e la concreta “prosa dello Stato ruffiano” delle destre con il loro elettorato di riferimento, con la loro base sociale privilegiata. Questo ci sembra il tema cruciale con il quale una opposizione consapevole del suo ruolo (e che voglia ambire ad essere credibilmente alternativa) deve misurarsi. E siccome di questa consapevolezza v’è ancora debolissima traccia, è intorno a questo scarto tra “poesia” e “prosa” che è politicamente urgente concentrare l’attenzione.
L’interesse nazionale secondo Benito
Giorgia Meloni ha assunto in questi anni, e ancora in questi primi mesi del suo esecutivo, l’interesse nazionale quale ‘valore supremo’ a fondamento del suo indirizzo politico e quale cogente criterio al quale ancorare l’azione di governo. C’è qui un elemento di lessicale continuità con una risalente cultura politica della destra italiana. Agitare, tuttavia, lo spauracchio del fascismo – in questo ancora più che in altri campi – rischia di essere fuorviante. Almeno al momento, come acutamente sottolineato negli interventi di Claudio De Fiorese ed Andrea Guazzarotti contenuti nel forum sulle riforme costituzionali del nostro web magazine. Nel ventennio l’interesse nazionale pone a suo fondamento di legittimazione una concezione etnica della comunità nazionale (culturale, storica biologica, razziale) e una concezione etica dello Stato che faceva enfaticamente dire a Mussolini che «lo Stato non rappresenta un partito, ma la collettività nazionale che comprende tutti, supera tutti, protegge tutti e si mette contro chiunque attenti alla sua imprescrittibile sovranità». Una concezione attorno cui venne costruita una impalcatura giuridico-costituzionale che attribuiva a un organo (il Duce insieme al Gran consiglio del fascismo in Italia, il Führer in Germania) il potere di definire l’interesse nazionale.
L’interesse nazionale secondo Giorgia
L’attuale ‘ripoliticizzazione’ dell’interesse nazionale da parte delle destre appare – in attesa di conoscere i contenuti, ancora vaghi, della riforma presidenzialista – distante dalla declinazione datane dai totalitarismi europei della prima metà del XX secolo.
Il che non significa che siamo di fronte ad un suo uso innocentemente nostalgico e consolatorio. La sua assunzione a fondamentale bussola della politica estera e interna ambisce, invero, a tingersi di tratti di rinnovata, ‘poetica’, attualità. Coniugare – sottolinea, ad esempio, il ministro delle Imprese e del Made in Italy – le vocazioni e peculiarità storiche dell’Italia con le esigenze della transizione ecologica e digitale. In ogni atto che realizziamo – incalza il meloniano Urso – nella politica commerciale come nei tavoli di crisi, intendiamo coniugare le esigenze di sicurezza nazionale con quelle della competitività del Paese, le modalità della transizione con le potenzialità e i tempi del sistema produttivo nazionale.
Interesse nazionale, dunque, come autonomia strategica nel campo della difesa e del digitale «per evitare di passare da una dipendenza energetica dalla Russia a una tecnologica dalla Cina». Né nostalgie neo-assistenzialiste, né nostalgie vetero-mercantilistiche si precisa, a voler sottolineare l’originalità, anche ideologica e culturale, del melonismo.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare
Grande è, insomma, la distanza tra il dire e il fare, tra la “poesia” muscolare e romantica dell’interesse nazionale come è stato a lungo rappresentato dalla destra fascista e post fascista e l’odierna declinazione che ne danno oggi le destre al governo. E segnatamene la destra meloniana.
La ‘responsabilità’ di questo scarto non è del mare. La retorica sull’autonomia strategica dell’Italia è in stretta continuità con il draghismo, con l’espressa e enfatizzata collocazione geopolitica della Nazione «nell’area atlantica e occidentale». Come del resto viene sottolineato già nel programma elettorale di tutta la coalizione: «un’Italia, a pieno titolo parte dell’Europa, dell’Alleanza Atlantica e dell’Occidente. Più Italia in Europa, più Europa nel Mondo».
Uno spartito a rime obbligate che declina l’interesse nazionale nel quadro di un cogente vincolo transatlantico anche su un tema, quello del Mediterraneo allargato, nel quale elettivamente patriottica dovrebbe essere la rivendicazione di una autonomia politica dell’Italia.
Ne è emblematica testimonianza l’evocazione, presente già nel discorso di insediamento di Meloni in Parlamento, di un “piano Mattei per l’Africa”. Un piano che più che riproporre le politiche innovative del fondatore di Eni (garantire agli stati africani la maggior parte degli introiti provenienti dall’estrazione degli idrocarburi) è con tutta evidenza mirato a rafforzare l’indipendenza dal gas russo, a fare dell’Italia una sorta di ponte energetico tra Africa ed Europa, a “prevenire” – tramite una più stretta cooperazione con i governi africani – terrorismo e flussi migratori.
Un servile “lisciare politicamente il pelo”, da una parte, ai desiderata dell’attuale geopolitica e geoeconomia atlantica e, dall’altra, alle securitarie istanze del proprio elettorato. Una “quadratura” del cerchio, pensano i “fratelli di Giorgia”, che consente al suo esecutivo, quando i risultati latitano, di ricorrere, per arginare “l’emergenza migratoria”, alla dichiarazione, sempre in nome dell’interesse nazionale, del centoventesimo “stato di emergenza” degli ultimi venti anni.
Lo “Stato ruffiano”, una mistica molto ‘democristiana’
La declinazione ‘servile’ dell’interesse nazionale è ancora più scoperta nella politica interna in senso stretto. Qui lo scarto tra poesia e prosa dell’interesse nazionale è, per certi versi, più marcata.
Mixando variegate e convergenti culture liberal-conservatrici e liberiste – lo Stato guardiano notturno, lo Stato della crescita, lo Stato minimo, lo Stato meritocratico, lo Stato paternalista, lo Stato nazionalista – il melonismo precipita in una mistica, molto democristiana, da Stato ruffiano (espressione a suo tempo coniata da Filippo Turati). Uno Stato quantomai accondiscendente con le richieste di privilegi, di concessioni, di deroghe da parte delle ‘corporazioni’ presenti nella ‘Nazione’, le cui particolaristiche istanze le destre prima alimentano e legittimano nelle piazze e poi provano a legalizzare.
Una etica dello Stato che permea in modo esemplare la delega fiscale. L’attuale Governo – ha sottolineato l’ex Ministro delle finanze, Vincenzo Visco – considera irreversibile la balcanizzazione del sistema tributario e promuove il ritorno a un sistema di tipo cedolare simile a quello che esisteva prima dell’ultima grande riforma tributaria del 1971. Laddove sarebbe necessario (qualunque idea si abbia di Stato sociale) ridurre l’imposizione sul lavoro, aumentare quella sui profitti, sulle rendite, sui consumi, sul patrimonio, si preferisce invece frammentare l’ordinamento fiscale tra diverse categorie e i contribuenti, a parità di reddito, vengono sottoposti a prelievi differenziati.
Una declinazione quantomai corporativa e di classe dell’interesse nazionale a suggello della quale si prevede di detassare plusvalenze, di ridurre la tassazione dei redditi di capitale, di introdurre un concordato biennale preventivo. Chi, sulla base delle informazioni disponibili (banche dati), dovrebbe pagare il doppio o il triplo pagherà assai meno del dichiarato e del dovuto. Non meno ruffiane con le istanze particolari, settoriali, corporative della ‘Nazione’ sono le altre annunciate politiche dello Stato delle destre. Dalla quella energetica a quella ambientale, dalla politica sociale a quella industriale. Dalle politiche dell’“accoglienza” dei migranti alle nomine nei grandi enti pubblici, al nuovo codice degli appalti (e quant’altro). Tutte politiche che guardano con favore ai più o meno indicibili interessi del nucleo forte della propria base sociale (imprese, percettori di rendite, di privilegi monopolistici), che non si curano di chi è “improduttivo”, che strizzano l’occhio ai propositi di ulteriore privatizzazione della sanità e del sistema scolastico.
È il nazional conservatorismo, bellezza!
C’è ne sarebbe abbastanza per dire “no grazie” allo “Stato nuovo” e “antico” di chi ruffianamente flirta con il Belpaese. E, tuttavia, non ci si può fermare a questa pur legittima e sacrosanta denuncia. Non si può attribuire l’ascesa delle destre e il consenso del quale godono e continuano a godere semplicemente agli antichi e intramontabili vizi degli italiani. C’è dell’altro, qualcosa di più attuale.
Il melonismo partecipa ed è parte di un più generale e trasversale progetto politico-istituzionale che in diverse parti dell’Occidente si propone oggi di fare i conti con le ripetute crisi della globalizzazione neoliberista dell’ultimo quindicennio. Quella finanziaria del 2008, quella pandemica, quella bellica.
Il nome di questo progetto è nazional-conservatorismo. Un progetto che risponde alle circostanze storiche della deglobalizzazione e che si propone di offrire risposte alle ansie di sempre più diffusi settori economici. Difendere gli interessi delle grandi imprese della Nazione, offrire vie di fuga a piccoli imprenditori sull’orlo della bancarotta (magari rendendogli più facile evadere le tasse), garantire un forte sostegno a imprese strategiche. Oggi, in particolare, a quella degli armamenti, scelta ben condensata dal passaggio di Guido Crosetto da lobbista dell’industria della difesa a capo del Ministero della difesa.
Una promessa di protezione che mette al centro il diritto della comunità nazionale di conservare e ristabilire la propria tradizione, la propria identità, il controllo sulle proprie attività economiche minacciato dall’ideologia liberista per il quale il mercato è tutto, tutto è mercato e tutto il mercato deve essere globale.
Un Neo-protezionismo che, tuttavia, non disdegna il cocktail di ricette neoliberiste in materia assistenziale, fiscale e di funzionamento del mercato del lavoro. E qui risiede la chiave del suo forte consenso tra le classi proprietarie, tra i commercianti, tra gli artigiani, tra gli operai che dipendendo dal mercato interno e sono spaventati dalla concorrenza del mercato mondiale. Mentre il progressismo neoliberale abbagliato dal protezionismo culturale delle destre (limitazioni dell’aborto, avversione verso la comunità lgbt, difesa della famiglia tradizionale e politica a favore della natalità, ostilità contro gli immigrati) non vede che il protezionismo neo-culturale è solo la sovrastruttura, strumentalmente agitata, per rendere digeribile il protezionismo neoliberista e asociale.
È questa la forza del nazional-conservatorismo, bellezza! È qui che risiede la ragione più profonda, tutt’altro che contingente e congiunturale, del successo delle destre in Italia. Hic Rhodus hic salta. Prima l’opposizione lo capisce e prima la denuncia dello scarto tra “poesia” dell’interesse nazionale e “prosa” dello Stato ruffiano diventerà credibile. E, politicamente ed elettoralmente, competitiva.