È fuor di dubbio che sia in corso nel Partito Democratico una discussione molto tesa, con episodi che sarebbe riduttivo etichettare come semplici scaramucce. Toni aspri, fuoriuscite, minacce di abbandono: più che punture di spillo sono ricomparizioni di questioni irrisolte che a cicli, casuali o stabiliti, si affacciano o rimangono sotto cenere.
Tutto pare ruotare intorno a una sorta di ritorno al Pci ovvero a una possibile chiarificazione dell’identità di un partito postcomunista. Un ‘equivoco’ che già presiedeva più di quindici anni orsono allorché Walter Veltroni orientò quella che poteva essere una scelta marcatamente laburista verso approdi ambiziosamente ancora più ampi eppero’ più indefiniti, e forse indefinibili.
Nella discussione, è bene dirlo senza infingimenti, non è estranea né marginale una componente nostalgica, quella cioè che, seppure forse inconsciamente, difficilmente è in grado, e probabilmente neppure lo vuole, di rimuovere o rielaborare ruolo, personale politico, orizzonti di una stagione del secolo breve in cui si è stati egemoni: il passato sa essere impietoso, ingeneroso. Così come, per converso, atteggiamenti fin troppo tranchant e liquidatori, tatticamente poco accorti, di una esperienza per quanto esaurita indubitabilmente carica di successi denotano se non ingenuità inaccortezza, immaturità politica.
Al netto di livori spesso personali e di un cascame compreso fra ideologismo manifesto e pragmatismo sbrigativo il nocciolo della questione è da rinvenirsi nella domanda: Quali spazi oggi per una forza politica riformista? Ovvero: Le condizioni odierne, anche per responsabilità delle scelte di un recente passato che hanno visto l’abbraccio acritico della scelta liberista, autorizzano a coltivare ipotesi di un partito di governo e non rincantucciarsi, in attesa di tempi migliori, su posizioni difensive?
Uno scenario contempla valori, blocchi sociali, prefigurazioni e visioni del futuro; l’altro è simmetricamente definito, talchè ragionare, come qualche dirigente nazionale del Pd si ostina volenterosamente o forse furbescamente a fare, invocando unità e convivenza rischia di produrre la permanenza in un limbo di indeterminatezze e quindi di paralisi.
Ci sono forze e idee in grado di motivare e sorreggere il Pd in quanto forza di governo? Insieme a forze politiche affini e complementari da conquistare a un alleanza in virtù di chiarezza di intenti e plausibilità di argomentazioni?
Le posizioni della segretaria Schlein sono consapevolmente ancorate alla difesa di diritti e situazioni dei ceti più deboli, esprimono un legame forte, che non sembrerebbe esclusivamente tattico, con il M5s e la Cgil: in qual conto tengono in considerazione l’emergere di una modernità, di scenari, di espressioni del mondo del lavoro che taluni riportano non solo prevalenti ma in qualche misura irreversibili?
L’Unità (e la sua difesa) sono beni importanti, per affermarla e inverarla declinandola in azione politica ci vuole pazienza e saggezza ma spesso anche altro: il coraggio delle scelte e la responsabilità del ruolo che si riveste.
Nello stesso tempo, infatti, mentre ci si aggroviglia nella stessa identica matassa da trent’anni e più a questa parte, la destra festeggia ma contemporaneamente mostra una lampante difficoltà nel governare, nel misurarsi nella complessità che invece vedrebbe nel dna di una sinistra moderna purché libera di orpelli datati e impresentabili doti e capacità utili a proiettarci nel futuro.
Ammesso che sia capace e voglia liberarsene.