Facciamo un pò di ordine.
Non c’è dubbio che l’immagine della Calabria è fortemente segnata dallo stigma impresso nel corso dei decenni, forse nel corso dei secoli, su un territorio caratterizzato dalla lotta perenne dell’uomo contro la natura di aspra e selvaggia bellezza, la furia delle acque che si riprendono con violenza ciò che l’egoismo dell’uomo cerca di sottrarre, le divisioni insanabili tra i campanili e le congreghe. Quello che il lucido pensiero di Augusto Placanica sintetizzava nella “Calabria in idea” , un paradigma di vizi e di virtù, che in alcuni momenti della sua complessa storia, vissuta non sempre da protagonista, quando il resto dell’Italia si dava un assetto di governo attorno alle grandi comunità urbane, veniva identificata come “un Paradiso abitato dai Diavoli”.
Almeno così veniva raccontata, anche quando la maggior parte dei viaggiatori che si spingevano oltre Napoli e fino all’Aspromonte per raggiungere la Sicilia, andavano alla ricerca dei suoni, dei profumi, dei colori, delle atmosfere e delle vestigia della Magna Graecia. Una regione sospesa tra un passato difficile da conservare e un cammino verso la modernità accidentato dalla miopia dei governi nazionali e dall’inadeguatezza delle classi politiche e dirigenti locali. Un percorso verso il progresso e il superamento delle disuguaglianze, che proprio negli ultimi 70 anni ha trovato un colossale macigno nella penetrazione nefasta della ‘ndrangheta, trasformatasi in una vera holding internazionale del crimine, nel tessuto economico e sociale della regione.
Almeno questa è la vulgata corrente che descrive una “Calabria in idea” irrimediabilmente persa alla causa del progresso civile, che altrove viaggia in una dimensione europea. Almeno questa è la realtà percepita, che chiama direttamente in causa anche il mondo intellettuale, gli scrittori che, dopo Corrado Alvaro, Saverio Strati, Leonida Repaci, Mario La Cava non sono riusciti a trovare il fil rouge per raccontare l’altra Calabria. Quella che quotidianamente lotta per affermare la propria dignità, i propri valori di giustizia, di libertà, la propria cultura, il proprio diritto ad una diversa qualità della vita e ad avere uguali chances materiali e immateriali.
E’ evidente, però, che ormai di tutto questo devono prendere coscienza prima di tutto i calabresi, abbandonando “vecchi e passati vittimismi, brontolii sommessi e meno sommessi, piagnistei, recriminazioni, lamentazioni”, e scegliendo finalmente la strada della responsabilità e della “lealtà”, come appunto auspicava Corrado Alvaro. Di tutto questo si stava discutendo meritoriamente sulle pagine di questo giornale, quando sono scoppiate le assurde querelle conseguenti ad una partita di pallone tra le squadre rivali di Catanzaro e Cosenza, che vivono con isteria un irrazionale complesso di suprematismo politico e culturale. E purtroppo, come avviene ormai ciclicamente, non si
trovano argomenti più originali per affermare il ruolo delle proprie comunità che tirare in ballo la funzione irrinunciabile dell’ informazione pubblica, rappresentata con diffuso apprezzamento dalla testata giornalistica regionale della RAI.
Una funzione sociale, culturale e “politica” svolta nel corso degli anni, da giornalisti di grande e indiscussa qualità
professionale, che hanno fatto la storia non solo della testata, ma del giornalismo calabrese e nazionale. Un patrimonio da difendere e tutelare, pur con i suoi limiti e contraddizioni. Da Enzo Arcuri a Emanuele Giacoia, da Franco Martelli a Mimmo Nunnari, da Pino Nano a Tonino Raffa, da Annamaria Terremoto a Pietro Melia… E tantissimi altri, che sarebbe lunghissimo ricordare e che hanno onorato la presenza della televisione di Stato, attraverso il segnale irradiato dalla storica Sede di Cosenza su tutto il territorio calabrese. Ecco perché riaprire oggi la discussione sui motivi e sulle logiche che hanno portato alla scelta cosentina a discapito del capoluogo di regione è un esercizio di mediocre realismo e intelligenza politica. Tentazione in cui sono caduti periodicamente politici catanzaresi di vario calibro, spesso a corto di idee credibili, capaci di frenare la lenta e progressiva decadenza di quella che era stata la città guida al servizio dell’intera Calabria.
E puntualmente a questa sciagurata tentazione non è riuscito a resistere il Sindaco di Catanzaro, che difronte alla progressiva perdita di centralità politica e funzionale del capoluogo di regione ( smembramento della Facoltà di Medicina dell’UMG a favore dell’UNICAL e addirittura di Crotone, perifericità del capoluogo rispetto ai collegamenti ferroviari, autostradali e aeroportuali, marginalità culturale di Catanzaro a partire della precarietà artistica e programmatica del Teatro Politeama, pur riconosciuto come “monumento nazionale”, desertificazione del suo centro storico, cancellazione di rappresentatività politica a tutti i livelli regionali e nazionali ) non ha trovato di meglio che imbroccare la strada del più gretto populismo di stampo para-sovietico e invocare la creazione di un Comitato di Controllo sull’attività del TGR, con l’intento di misurare col bilancino dell’ottusità campanilistica lo spazio dedicato alle varie contrade calabresi. Anziché pretendere che sia rinnovato il racconto unitario della “Calabria in idea” nella sfida con la realtà quotidiana.
Il prossimo 25 aprile, giorno simbolicamente evocativo, sarà proiettato nelle sale cinematografiche il film “Il mio posto è qui” di Cristiano Bortone e Daniela Porto, tratto dall’omonimo romanzo della stessa regista. La storia è ambientata in una Calabria rurale negli anni 40 all’indomani della guerra e narra la coraggiosa lotta di una giovane donna per l’affermazione della propria identità femminile di fronte al pregiudizio e alle chiusure della società calabrese. Forse un modo per leggere da un’ altra angolazione l’ansia di riscatto e di liberazione che anima da sempre le donne calabresi e per affermare la definitiva emancipazione dalla radicata cultura patriarcale.
Ancora una volta l’arte e la cultura sono molto più avanti di una certa politica.