Per antica tradizione il giorno dell’insediamento di un nuovo Presidente è un momento repubblicano, un momento incentrato sul potere civile americano – l’essere costituzionalmente gli Usa una Repubblica – più che l’essere gli Usa, di fatto, anche un impero.
Il cerimoniale – ricorda la rivista francese Le Grand Continent – ha sin qui sempre registrato questa scelta, nel senso che nessun Capo di Stato o di Governo vi è mai stato invitato. A voler sottolineare la differenza con la tradizione romana nella quale l’imperium conferisce al suo titolare non solo il potere civile all’interno della capitale (imperium domi) ma anche il potere militare fuori Roma (Imperium militiae). Il cerimoniale è simbolo, messaggio, sovrastruttura di una struttura.
Il suo mutamento, al di là della consapevolezza che ne abbiano i suoi organizzatori, non può essere sottovalutato. Questa volta alla cerimonia di inaugurazione sono stati invitati molti dei suoi alleati stranieri (Miley, Netanyahu, Orban, il Presidente di El Salvador Nayib Bukele, l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro e altri). Quello che conta è che Trump abbia pensato la giornata non come una inaugurazione ma come una incoronazione. Probabilmente, già nelle prossime ore osservatori e commentatori liberal, ironizzeranno su questo, lo interpreteranno come l’ennesima caduta di stile di un uomo volgare, populista e sovranista, che ignora le regole e il bon ton democrat. E, invece, anche questa volta si sbagliano: quelle regole le conosce bene e le vuole cancellare sin dal cerimoniale, per far capire che un’altra epoca si è aperta nei rapporti dell’America con il resto del mondo e con l’Europa.
I commentatori liberal hanno ancora una volta capito poco del marchio di fabbrica America first. Pensano che si tratti semplicemente di autarchico populismo isolazionista in politica estera e di protezionismo commerciale (l’annunciata guerra dei dazi). La fine dell’America come era una volta. Una mezza verità, cioè una mezza bugia, sia per quanto concerne l’America democratica del XX secolo, sia per l’epoca della prima presidenza Trump, sia per l’epoca che si sta per aprire con la seconda Presidenza Trump. Le cose sono assai più complicate, specie per noi europei.
A proposito dell’epoca che si apre oggi, lunedì 20 gennaio 2025, Lorenzo Castellani, un giovane scienziato della politica, ha coniato l’espressione accelerazione reazionaria. Io appartengo ad altra generazione e preferisco gramscianamente parlare di rivoluzione passiva. La sostanza, dal punto di vista analitico, non cambia molto e, perciò, mi avvarrò delle acute considerazioni del giovane ricercatore.
L’alleanza che ha portato Trump al potere per la seconda volta è significativamente diversa e più ampia di quella con cui ha battuto Hillary Clinton nel 2016. Ridurre tutto alla catena America first/isolazionismo/protezionismo significa ignorare i tre bacini elettorali che hanno condotto Trump alla vittoria e dei quali è ora veicolo e interprete nel modo estremamente pragmatico come solo Lui sa fare.
Primo bacino politico. I populisti, l’elettorato rurale e delle classi lavoratrici, l’elettorato delle piccole città, del lavoro manuale e della concretezza, che reclama di far fronte ai guasti delle delocalizzazioni, dell’invasione di prodotti stranieri, dell’immigrazione indiscriminata. Di porre, insomma, riparo ai guasti sociali, economici ed esistenziali della belle époque del globalismo neoliberale: re-industrializzazione e re-territorializzazione all’insegna dello slogan America first allo stato puro, se non fosse per la crescita di consenso che questo programma ha questa volta suscitato anche tra le minoranze etniche.
Secondo bacino politico. L’elettorato tradizionale repubblicano, legato ai valori tradizionali, alla libertà di impresa, all’avversione per il fisco.
Terzo bacino politico. Un nuovo elettorato, piccolo ma influente, trascinato dalla Silicon Valley e da Wall Street che ha sposato le idee trumpiane sul fisco e sulla ri-territorializzazione del capitalismo manifatturiero ma entro un orizzonte ancora più de-territorializzato e libertario quando sono in ballo gli interessi e le visioni del futuro delle grandi compagnie tecnologiche e finanziarie.
Una coalizione di interessi socialmente ed economicamente eterogenea, tenuta insieme da un mix di chiusura e apertura, di protezionismo ed espansionismo, di valori tradizionalisti e futuristi. Tenuta insieme dalla richiesta di protezione della classe media e, allo stesso tempo, dall’orizzonte visionario di una oligarchia tecno-capitalista, di una metafisica del futuro, la vita su Marte, di metaverso e di intelligenza artificiale, di criptovalute. Tutte imprese e progetti che per essere progettati e realizzati richiedono appropriazione e controllo di risorse minerali, di altri territori, che li contengano ovunque essi siano. Razzi, sonde spaziali proiettate verso la possibilità di vita extraterrestre per gli esseri umani, robot, auto senza conducente, finanza globalizzata alla ricerca della prossima schumpeteriana distruzione creativa, industria delle nuove e vecchie energie
Una accelerazione reazionaria. Non solo Elon Musk, ma un vasto mondo di capitalisti tecnologi e investitori quali Peter Thiel, fondatore di Paypal; il gestore di hedge fund Bill Ackman; il Presidente di JP Morgan Jamie Dimon. Un vasto mondo interessato a integrare il protezionismo con una politica economica e commerciale aggressiva. Oggi, da subito, verso l’Europa, rappresentata, in ragione della sua debolezza tecnologica e politica, come tentata da una maggiore apertura nei confronti della Cina, il competitore e nemico per eccellenza del presente e del futuro americano. L’Europa, vittima designata, già colpita duramente dalle conseguenze della guerra in Ucraina, dalla concorrenza sui capitali condotta a suon di rialzi dei tassi di interesse e dai provvedimenti neomercantilistici varati da Biden (IRA: sussidi ed esenzioni per la produzione e installazione di tecnologie low-carbon, veicoli elettrici, pannelli solari e batterie. Chips Act: sovvenzioni per la manifattura dei semiconduttori). Da questo punto di vita, la Trump-economics come ulteriore radicalizzazione della Biden-economics, con le grandi big tech che vedono nella nuova amministrazione l’occasione per avere ancor più campo libero, in particolare nel settore digitale.
L’Europa come ventre molle dell’impero americano, altro che chiusura dell’impero americano nei confini della Repubblica Usa. Altro che deglobalizzazione. Piuttosto, conservazione del benessere e dell’identità americana affidate al dominio della globalizzazione da parte delle tecno-economie capitaliste di un Continente che si pensa tutt’altro che chiuso nei suoi confini. Che continua a vedere il mondo e il cosmo come un’open space.
Questa è l’ideologia profonda, non da oggi, dell’impero. Una ideologia americana, declinazione attualizzata, in salsa trumpiano-muskiana, della dottrina Monroe.
All’origine, nell’Ottocento, una dottrina a tutela dell’emisfero occidentale contro le pretese colonialiste del Vecchio mondo, nel presupposto che tutto il continente americano fosse parte della naturale sfera d’influenza degli Stati Uniti. Annuncio di una Translatio imperii che si dispiegherà compiutamente nel corso del XX secolo. Quando? Quando la rivoluzione spaziale della moderna aeronautica (e poi della radio, del telefono, del telegrafo, dei media e oggi delle tecnologie dell’informazione) ridurrà grandemente le distanze spazio-temporali e gli Usa cominceranno a leggere anche le vicende che si svolgono da altre parti del mondo come qualcosa che li riguarda, qualcosa che offre loro la chance di porsi alla guida di una nuova epoca.
Siamo, per così dire, alla dottrina Monroe 2.0. Una torsione espressamente imperialista della dottrina Monroe, eticamente legittimata da una narrazione progressiva dei destini dell’umanità. Grazie alla densa connettività assicurata dall’elemento aria, il mondo può, infatti, ora venire rappresentato come ontologicamente più piccolo, più globale, più uno (One World) e destinato, man mano che viene sempre più conosciuto e frequentato dai popoli, a veder recedere i conflitti. Un mondo in cui le rivendicazioni nazionalistiche e le politiche di potenza appaiono oggettivamente insensate. Recessive, grazie anche all’estensione dei principî pacifici dell’economia liberale e dell’economia globale.
Metafisica, a uno sguardo lungo e disincantato. L’Air age ha, invero, il suo “battesimo di fuoco”, in senso reale e metaforico, immediatamente dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor. Si tratta ora di giustificare l’ingresso nella seconda guerra mondiale e di fare degli Stati Uniti il perno del futuro ordine mondiale. Con il connesso potere – diritto-dovere – della potenza in ascesa di esercitare un controllo su larga scala, di garantire, tutte le volte che lo ritenga necessario, la pace attraverso la forza (peace through strength).
La dottrina Monroe in salsa trumpiano-muskiana è una sorta di dottrina Monroe 4.0. Un’altra forma, forse, di imperialismo, ma altrettanto violenta come le annunciate guerre ibride, guerre commerciali, tecnologiche, finanziarie per coloro che non si adeguano alla geografia dei “confini à la carte”.
Panama, Golfo americano, Canada cinquantunesimo Stato a stelle strisce, non sono un caso, manifestazione di una esuberanza partorita in un momento di incontinenza. E la Groenlandia, al di là del suo specifico valore economico- tecnologico per i materiali che contiene (terre rare, petrolio, gas, ecc.) è un paradigma del trumpiano-muskiano mondo open space. Il simbolo di ciò che la nuova amministrazione statunitense pensa degli spazi e degli altrui territori quando li considera come uno strumento utile per i suoi special interests.
V’è qui un tratto costante dell’ideologia americana, il cui lessico e la cui mutevole strumentazione non devono far velo sui suoi evidenti tratti di continuità. L’ideologia europea è attrezzata a fare i conti con le “nuove Compagnie delle Indie” alla Musk che vogliono essere libere di occupare i territori del Vecchio continente, libere di scorrazzare senza vincoli e regole nei suoi spazi?
*ordinario di Diritto Costituzionale, UniUrbino.
** già pubblicato su Fuoricollana.