I suoi pugni non erano solo pugni. Erano le protesi visibili di una volontà non visibile. Il suo ardore, il furore agonistico, le sue boccacce, erano il completamento di una volontà comune, riguardante milioni di uomini. Di colore e no. Oltre al solito miracolo del pugile che vince e riscatta l’esistenza miserabile, Alì rappresentò l’inedita versione dello sportivo che pensa e che si schiera, che appartiene al mondo, e responsabilmente col suo ruolo promuove delle scelte.
Sul ring un guerriero, padrone del più antico strumento di offesa del genere umano, ossia i pugni; fuori dal ring una rockstar antesignana; nel mondo un’icona dell’autodeterminazione, pagata in prima persona, senza sconti e senza trucchi, questo e non solo questo era Cassius Clay. Il suo cambiamento di nome in tempi di sogno americano, la renitenza alla leva (“nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro”), il titolo perso d’ufficio e la riconquista eroica, tutto contribuisce alla sua leggenda.
Nella notte di Kinshasa, quando sconfisse per KO all’8° ripresa il gigante Foreman, metà mondo esultò. Era quello che sognava un futuro migliore. In un evento sportivo si focalizzarono reazione e rivoluzione. Due uomini se le diedero di santa ragione spinti dal fiato sospeso della popolazione. Da un lato Mohammed e la rivolta verso le mostruosità; dall’altro Foreman e il conformismo, il mantenimento di luoghi comuni e l’integrazione perfetta. Alì vinse incassando centinaia di pugni ai fianchi dal colosso. Lo stancò con la resistenza. Se fino a quel momento aveva saltellato come un zanzara sul ring, nello scontro decisivo modificò tutto. Incassare. Stancarlo. Foreman picchia come un fabbro, ma lui non cede. Poi come il lampo di un fulmine i suoi pugni colpiscono. Come abbattere una quercia. Il Golem al tappeto e la cintura d’oro massiccio di Campione del Mondo è di nuovo sua.
Oltre la leggenda, non è morto solo un uomo di sport; il suo esempio e i suoi gesti hanno influito sul percorso dell’umanità intera, probabilmente è vero chi lo piazza tra i primi cento uomini influenti del secolo passato. E ciò che lo renderà ancora più icona, sarà la tenerezza, la fragilità, la ferrea dignità della sua immagine quando, già malato da tempo, accese la fiaccola delle Olimpiadi di Atlanta del 1996.
Un gigante, un guerriero, un mito dello sport. Semplicemente un uomo coraggioso, dalle grandi mani e dalle grandi idee, e la forza per compiere grandi imprese. Questo era Alì.