di GIUSY STAROPOLI CALAFATI -
Con Antoni all’età di dieci anni ci eravamo giurati amore eterno. A venti scambiati gli anelli davanti a Dio e a tutti i parenti. Finite le scuole elementari ci promessi l’un l’altra, che un giorno avremmo dovuto conoscere, costi quel che costi, il maestro Saverio. Necessitava dare un volto a colui che con il garbo dello scrittore, aveva costruito storie e personaggi della nostra terra. Una volta sola, sol per dirgli grazie per tutte le volte che nei suoi libri aveva raccontato anche noi.
Viveva a Scandicci, Saverio Strati. Sull’Arno d’argento. Noi invece dimoravamo al Sud da generazioni. E a stare al Sud, nonostante gli stenti e le ristrettezze insite nell’indole del Meridione, era da folli. Ma era la nostra terra a renderci tali. Perché al Sud si è folli liberi. Liberi di fare pazzie, di lavorare da matti per vivere e più liberi di vivere facendo i matti.
Quando fu settembre, l’anno in cui io e Antoni ci sposammo, partimmo in pullman per la prima volta. Dal giorno delle nozze erano passati nove mesi. E nessun figlio aveva deciso di venire. Così prima che l’inverno rapisse le anime dei paesi rimettendole ai piedi del focolare, partimmo per la bella Firenze. Un viaggio questo che s’apriva, finalmente, alla volta del volto di Saverio Strati.
Da Firenze, che ci rapì di già al primissimo impatto, seguimmo a piedi verso Scandicci in cerca di lui. La speranza era quella di essere arrivati per tempo. Cercammo il maestro ma non c'era. Dal Sud eravamo partiti troppo tardi. Da quelle scuole elementari, in cui avevamo letto e riletto l’epopea stratiana, era passato tanto, troppo tempo. Strati era morto in primavera.
"Lo hanno cremato", dicono a Antoni al cimitero. "Da allora abbiamo perso le sue tracce. Non sappiamo dirvi altro, signori. Il corpo di colui che cercate non è qui."
Sfogliammo pagine con elenchi lunghissimi e agende con appunti di morte ovunque, per conoscere la leggenda della morte dello scrittore santagatese. Nulla.
La rosa e i girasoli presi al chiosco davanti al Cimitero fummo costretti a riportarli in Calabria, in pullman, con noi. Il maestro non c’era né in corpo né in cenere.
Rimaneva Hildegard, però. Al suo vecchio numero civico, cercammo Hildegard Fleig, sua moglie, la svizzera. Almeno lei, avrebbe dovuto esserci ancora.
Una signora annaffia il basilico. È così straordinario il basilico, che se solo crescesse sottoterra, costerebbe più del tartufo. Orti poveri di terra, costeggiano le case. Ringhiere perimetrali più d’una. Puntiamo al portone. Il citofono. Cerchiamo un nome. Il suo. “Trovato”, grida Antoni: S. Strati.
Il maestro è qui che aveva abitato per cinquant’anni. Qui aveva vissuto la solitudine della sua vita. Gli anni di Calabria mancata. L’oblio.
Antoni punta l’indice della mano destra al citofono. Pigia. Una volta. Due. " Quando è sola non apre mai a nessuno", la vicina, gentile. Io insisto. Pigio. Tre volte. Quattro. Scatto una foto. Strati riuscivo a sentirlo ma non a vederlo. – Andiamo – mi disse Antoni. – Qui non abita più nessuno.
Non gli credetti. Che fine aveva fatto, Hildegard?
Un uomo, lo scorgo ad osservarci dal terzo piano. Poi venire giù per le scale. Veloce. Di corsa. Aprire il portone: - Sì! –
- Salve Signore. Cerchiamo Hildegard. Hildegard Fleig in Strati. –
- Dite pure. È mia madre. –
Gianpaolo. Era lui il figlio avuto dalla svizzera.
Aveva la statura di suo padre. La testa e la sua calvizie.
Gli occhi di sua madre e la sua stessa freddezza. Incuteva imbarazzo, Gianpaolo. Soggezione. Vergogna, impaccio e timore. In lui osservai in tutto un attimo la Calabria, l’Italia e la Svizzera. Poi di colpo più nulla.
Avevamo davanti il figlio del maestro. Ma è bastato un attimo per capire che in lui a parte il sangue, del maestro non vi era rimasto nulla. Neppure il riflesso dei suoi libri.
-Veniamo dalla Calabria, signore. Un omaggio al maestro- alzando i fiori che ancora tenevo tra le mani. -Al cimitero non lo abbiamo trovato.-
- Mio padre è stato cremato. –
- Abbiamo letto i suoi libri alle elementari. Abbiamo pensato di portare il nostro saluto almeno a Hildegard e siamo qui. –
- Mia madre è a letto. È malata. Arrivederci, signori! –.
Fu come non sentire più i due odori più sacri e santi del mondo, che Strati pure inconsapevolmente, scriveva nei suoi libri: quello caldo del pane e quello della terra bagnata dalla pioggia. Eppure il pane l’avevamo preso ad una bottega qualche ora prima e aveva piovuto per tutta la notte.
Ma cosa era stato a renderlo tale, Gianpaolo?
Era stato forse il morbo del Settentrione così spartano, a rendere gelata la memoria di quell’uomo? O semplicemente noi, troppo meridionali, non eravamo riusciti a comprendere il suo modo di essere? Era stata l’incapacità di accettare la perdita di un padre così caro, o l’ossessiva mancanza di rassegnazione, a non permettergli l’approfondimento che noi avevamo richiesto? Era stata forse la solitudine sofferta dal padre, il rantolo triste dell’arresa, a renderlo così diffidente, schivo verso un Meridione (noi) alla riconquista di un maestro come Strati, Gianpaolo? O era stata una vendetta la sua aria composta, troppo, contro quel Sud che Strati l’aveva abortito come uomo e come scrittore? Ogni ipotesi sarebbe stata puramente casuale. Ma a renderlo tale, qualcosa era stata sul serio.
Antoni non disse verbo. Avrebbe voluto difendere la memoria di Strati anche con suo figlio, ma l’amore per i suoi libri, tanto quanto quello per la nostra terra (la nostra e di Strati), lo fermarono. Quell’uomo era Gianpaolo Strati. E per suo padre non aveva dimostrato neppure un segno di minima riconoscenza. Ci aveva licenziati su due piedi. Eppure non avremmo voluto fare altro se non stringere la mano a Hildegard che avevamo imparato a conoscere leggendo Il Nodo.
Non riuscimmo a penetrare gli occhi di quell’uomo neppure con la pietà verso quel Meridione che ci portavamo addosso come macchia. – Come vanto - avrebbe detto Strati. La rabbia di trovare anche attorno casa sua, quell’oblio del quale mai io e Antoni non avevamo voluto prendere coscienza, ci possedeva. L’oblio c’era stato e c’era ancora. Al maestro avevano dato davvero, il diritto all’oblio.
E, lei sarebbe stata fredda come suo figlio? A raccontarle quanto del maestro c’era dentro di noi, come avrebbe reagito? E gli scritti di Strati che mai avevano visto la luce, li avremmo trovati lì, in quella casa? Se solo Gianpaolo ci avesse fatti salire, avremmo potuto anche solo sentire il profumo dei fogli. Ma non è accaduto. Nulla è accaduto.
Le ceneri del maestro le avremmo trovate lì, in un vaso ornamentale, o l’Arno le aveva prese in seno per sempre, prima che noi arrivassimo?
Con Antoni ci prendemmo per mano. L’orologio segnava quasi mezzogiorno. Il pullman sarebbe ripartito verso Sud nel pomeriggio. Quello che restava di Strati, noi ce l’avevamo tutto dentro. Nel cuore, nella mente. Il resto…, il resto non era che parte di una storia ormai troppo vecchia per essere raccontata.