di TERESA CANTARO
– Ogni letteratura ha un viaggio come metafora della vita, un luogo del movimento che dà emozione, conoscenza, riflessione: i grandi ce lo insegnano.
Qui, nel libro di Antonio Calabrò, è facile, certo, applicare questo schema interpretativo. E’ inevitabile. Ma un libro, come si sa, è un incontro speciale tra scrittore e lettore ed io, lettrice da “treno della scienza” (delle cinque del mattino di quando il Nostro aveva circa dieci-undici anni) dico che quel racconto è la vita vera del capotreno sulle rotaie di una Calabria aspra e fascinosa che attrae e respinge come amante capricciosa, squinternata e irresistibile.
Così lo scrittore, l’uomo e il capotreno sono la stessa cosa e ci restituiscono la profondità del sentire oltre che del pensare. E’ colui che guarda con dolore il male del mondo e te lo fa vedere nelle scarpe rotte di un uomo nel freddo di gennaio. E’ colui che sorride benevolo della gioia e leggerezza di ragazzi chiassosi sotto la morsa degli ormoni. E’ colui che accetta il mistero dell’amore e non ne giudica la potenza, che ama le donne e ne ha quasi un rispetto antico.
E così ribelle e arrabbiato contro l’ingiusto del mondo, assume il senso civico del suo stare sul treno come attenzione vigile alla vita di tutti, alle loro esperienze visibili o intuibili. Non si sottrae alle sue responsabilità verso il bene collettivo e ne esalta il valore non dimenticando mai di essere un uomo in mezzo ad uomini. Cosicché le sue scelte quotidiane o, addirittura, del momento, diventano paradigmatiche: l’unico modo che hai di essere libero è di fare la tua parte.