LA PAROLA e LA STORIA. 'NDRANGHITA/2

LA PAROLA e LA STORIA. 'NDRANGHITA/2

foto per peppe


Un libro recente, che ha un suo interesse all’interno della narrazione ndranghetologica (AA. VV., Male lingue, Cosenza, 2014), ha pubblicato una tavola delle ricorrenze (pp. 233-235) che disegna inequivocabilmente la presenza diacronica e ininterrotta della radice greco-classica andragath- (sia pure nell’ibrido ‘andrangata’, forse mescolamento erroneo degli autori tra andragathìa e ‘ndràngheta , e anche nel verbo andragató  che non appare in alcuno dei dizionari da noi conculcati) e dei suoi significati dalle fonti bizantine all’anno 2000.

Possiamo dunque considerare risolte le perplessità di Rohlfs sulle ipotesi etimologiche di Paolo Martino e ritenere definitivamente acquisito il legame tra la andragathia classica e la ‘ndrangheta a noi contemporanea; l’interessante arcano glottologico si spiega con la sopravvivenza della lingua greca, anche classica e non solo bizantina, nella Calabria aspromontana.

Non si tratta di un caso isolato: Emanuele Lelli, studioso di poesia ellenistica nonché di letteratura scientifica e tecnica greca e latina, ha pubblicato un libro (SUD ANTICO, Milano 2016) in cui, comparando paremiologie e motti ricavati dalla tradizione classica con proverbi e modi di dire propri di aree molto conservative dal punto di vista etnologico (prima fra tutte l’Aspromonte grecanico), è giunto alla conclusione che ‘la tradizione culturale popolare antica si era in larga parte continuata in età moderna, in quello che oggi chiamiamo folklore europeo, in particolare proprio nel folklore del Meridione italiano” (p.11).

L’interrogativo principe che questa sopravvivenza pone è: quando e perché  il campo dei significati che quella radice aveva nell’antichità (valore, coraggio, onestà, lealtà, azione valorosa, azione da galantuomini) è stato soppiantato dal significato peggiorativo che il lessema ha acquistato nella pubblicistica odierna?

Anzitutto dobbiamo pensare ad una decadenza ed un mutamento di 'in re ipsa’, intendiamo nell’attività dell’organizzazione criminale, di cui deve essere stato fenomeno riflesso la peggiorazione semantica della parola ‘’ndràngheta”, secondo l’antico brocardo logico ‘rem tene, verba sequentur’.

Ovviamente, trattandosi di fenomeni linguistici per i quali non ci possono essere termini temporali precisi, dobbiamo immaginare una lenta decadenza dei significati positivi, una loro convivenza con gli  incipienti significati negativi e, infine, all’oggi in cui ogni nefandezza criminale (omicidi, traffico di stupefacenti e di essere umani, terrorismo, corruzione attiva e passiva) viene senza alcun tentennamento attribuita alla ‘ndràngheta’.

Per tutta la durata del fascismo, la mafia nazionale che discaccia le mafie locali e ad esse si sostituisce secondo il modello sciasciano, anche la ‘ndràngheta’ fu compressa dal regime e, di conseguenza, si schierò all’opposizione (tra le ovvie eccezioni ricordo Santo Scidone di Palmi, assoldato dallo squadrismo, e Don Filippo Tropeano a Condofuri, fratello del podestà Don Michele, entrambi proprietari terrieri).

E nelle carceri del regime, dove assieme ai criminali comuni e agli ndranghetisti soggiornava il fior fiore dell’antifascismo, finì per stabilirsi una comunanza di idee, di ideali e di sentimenti che durò oltre quella tragica esperienza: ne sono testimonianza gli scritti biografici di diversi illustri ex carcerati ( ndranghetisti e politici) e la presenza tra le file del movimento operaio, e non in ruoli marginali, di figure carismatiche come Nicola d’Agostino, per decenni sindaco di Canolo.

E, d’altra parte, chi volesse conferme del prestigio di cui godeva chi apparteneva alla ‘ndrangheta durante il fascismo ed anche dopo deve tenere a mente il caso di Corrado Alvaro ragazzo, il quale ‘… torna a casa e chiede alla madre dove sia il padre. <<E’ alla riunione dell’organizzazione>> gli risponde la donna con l’evidente obiettivo di tranquillizzarlo. La traduzione in linguaggio contemporaneo delle parole della signora Alvaro suonerebbe: <<Tuo padre è alla riunione della ‘ndrangheta>>; ma lei avrebbe probabilmente detto: << E’ alla riunione dell’Onorata società>> … Informato su dove fosse il padre, il grande intellettuale si tranquillizza … perché ritiene normale che il padre vada alle riunione di ‘ndrangheta…” (A. Varano-F. Veltri, Una vil razza dannata, Reggio Calabria 2014, p. 12).

Lo stesso Alvaro sulla rivista “IL PONTE” dedica alla Calabria ( Anno VI, n. 9-10, ora in Varano-Veltri, cit., p. 61) tesse una lode realistica dell’intrallazzo post-bellico con cui tanti ndranghetisti hanno iniziato le loro attività commerciali: “Il fenomeno della borsa nera in Calabria è stato uno dei fatti sociali più importanti che si siano prodotti in quella società”.

E, forse, è ascrivibile ai ‘codici d’onore’ mescolati con le aspettative politiche millenaristiche rimuginate nelle sezioni aspromontane dei partiti di sinistra  il fatto che i calabresi che emigrano  “… portano l’impronta di una formazione familiare, alcuni saldi concetti tradizionali, fra cui eminente quello della giustizia” (Alvaro, ibidem, p. 64).

Mario La Cava (ibidem, pp. 193-194) è ancora più esplicito: “E spesso il Calabrese privo di protezione in una società difficile dove il pane si conquista a caro prezzo, pensa di difendersi da sé con la risolutezza dei suoi atti oppure associa a sé altri animati  dalle stesse intenzioni. Si ha la mafia, fenomeno organizzativo della delinquenza, il quale ha tuttavia oggi limitata estensione e che non corrisponde alla teppa della città solo perché i fini che essa persegue non sono sempre arbitrari e il bene si insinua pure negli intrighi del male”.

Ancora nel corso della cosiddetta ‘Operazione Marzano’ Corrado Alvaro, sul primo numero del settimanale ‘L’Espresso’ riproposto da Zoomsud giorno 11 aprile 2016, ribadiva: “In qualche comune sorgeranno i piccoli capi autoproclamati per la difesa della giustizia; ‘capi bastone’ voglio dire. Perché si tratta di una malavita che crede di avere per missione raddrizzare i torti, colmare le lacune della giustizia, affrettare le procedure”.

Naturalmente la concezione affaristico-criminale della ‘ndrangheta, quella asservita al potere politico democristiano e alle logiche del trionfante capitalismo, conviveva con quelle improntate alla giustizia di cui parlano Alvaro e La Cava, e in molti posti era predominante; e nell’arco di un decennio, tramontati e/o emarginati i vecchi capi carismatici e l’aura di nobiltà e coraggio che li circondava, sarebbe diventata predominante.

Il termine simbolico di questa trasformazione fu la strage del mercato di Locri del giugno 1966.

Da allora in poi l’antica parola ‘ndrànghita si connotò progressivamente, povera lei e senza colpa alcuna,  dei significati sempre  più negativi che discendevano dalle prodezze criminali della nuova classe dirigente mafiosa e dell’esercito di ‘senza patria’ che erano seguaci (senza alcuna chance di successo che non fosse, poveri loro, la morte e/o le patrie galere) dell’unico e mendacissimo slogan del capitalismo globale: <<Arricchitevi!>>.

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