“Un romanzo in nove parole.” I promessi sposi, Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni (1827). Sintesi volgare, concisa, scombinata del capolavoro romantico italiano.
Non vi sembri strano, miei cari dieci sparuti lettori che mi seguite (omaggio neanche tanto velato al maestro), se oggi parlo dell’opera di questo nuovo scrittore esordiente che, secondo me, farà grandi cose nel panorama letterario nazionale: mi riferisco ad Alessandro Manzoni e ai suoi “Promessi sposi”.
Scherzo, naturalmente, ché la storia la conosciamo tutti per averla studiata a scuola, in gioventù, a forza d’ interrogazioni e quattro nel registro.
Io ancora me lo ricordo il professore di italiano dell’epoca, un prete, che mi fece odiare ogni singola riga di questo capolavoro stilistico prima ancora che letterario. Suo malgrado, poverino, dato che era evidente che amasse quel romanzo più di ogni altra cosa. Guai a dirne male!
Purtroppo, però, anche la bellezza più sublime, quando viene imposta come un obbligo e non è goduta liberamente, viene percepita come un peso, una condanna.
Si perde la magia. E poi, eravamo dei pischelli sprovveduti, almeno io. Tant’è.
E in verità vorrei chiedere a ciascuno di voi: quanto veramente rammentate di un romanzo così articolato e complesso, dai molteplici temi trattati (sociali, politici, morali), per averlo studiato, poco e male, durante il biennio delle superiori?
Ebbene, io rispondo per me stesso: pensavo di averlo abbastanza a mente, pensavo di ripercorrere sentieri conosciuti, di ritrovare immagini accantonate ma non perdute nella memoria e invece non ricordavo quasi niente.
Non la scena del contemporaneo tentativo maldestro di Renzo e Lucia di matrimonio “a tradimento” e della non riuscita spedizione dei bravi per rapire Lucia stessa, che fallisce proprio per la prima circostanza.
Non l’episodio dell’assalto al forno, a Milano, né il successivo incontro di Renzo con un birro, le incaute sparate in osteria, l’arresto, la fuga a piedi fino a Bergamo.
Non la dolorosa metamorfosi dell’Innominato e nemmeno l’ancor più drammatica fine di don Rodrigo.
Insomma, tante ombre su parti essenziali della storia.
Sapevo che queste vicende erano parte dell’intreccio ma era come se ne avessi sentito parlare da altri.
La rilettura, non per l’interrogazione dell’indomani, ma per il piacere di seguire il filo ininterrotto della narrazione, mi ha arricchito.
Mi ha fatto riscoprire la grandiosità di un’opera che, in un colpo solo, ha stabilito i canoni del romanzo storico, del poema romantico e, infine, ha (anche e soprattutto) battezzato la pressoché definitiva versione della lingua letteraria italiana.
Quello che più mi ha sorpreso, in questo riaccostarmi alle avvincenti pagine vergate dal nostro, ormai quasi “dugent’anni addietro”, è stato scoprire, nascosto tra le righe della sua cifra espressiva, un umorismo sottile e bonario che mi ha restituito una franca simpatia per un autore che è stato, assieme a Dante, lo spauracchio di generazioni di studenti svogliati di tutta la penisola.
Sarà anche vero che del senno di poi ne son piene le fosse e, tuttavia, è con quel senno che, miei cari amici, ne consiglio vivamente la (ri)lettura.