La comunicazione politica è in piena evoluzione ed il web rappresenta da qualche anno una grande opportunità
Sembrano ormai lontani i tempi di costosi “santini”, volantini, comizi e manifesti sparsi in città alla vigilia delle campagne elettorali come uniche forme di propaganda: anche l’attività politica, specie nella sua parte comunicativa, è stata stravolta dall’avvento dei social media e dei social network, in particolar modo da Twitter, Facebook e Youtube. La parola chiave è sempre la stessa, “partecipazione”, che accompagna una nuova politica e un nuovo modo di farla: Internet ha cambiato l’opinione pubblica e i politici se ne sono accorti; un personaggio politico, oggi, non può esimersi dal fare i conti con il cyberspazio e con un pubblico quanto mai critico, disincantato e partecipe. Il 4 marzo è alle porte, le elezioni 2018 entreranno nella storia come le prime senza finanziamento pubblico dei partiti per le campagne elettorali, siamo assuefatti da un flusso propagandistico H24 prepotente, su qualsivoglia device: ma cosa si cela realmente dietro un tweet e in generale dietro la nuova “politica digitale” degli ultimi anni?
La comunicazione politica è in piena evoluzione ed il web rappresenta da qualche anno una grande opportunità, sostanzialmente un’ottima vetrina, come dimostrato dai politici meno pratici che oggi si avvalgono di professionisti della comunicazione che ne curano la presenza e l’immagine sui social network. Nelle reti sociali, come nella realtà, conta la reputazione; la fiducia va conquistata, figuriamoci un voto in una dimensione che al primo passo falso può essere “letale”.
L’esempio fondamentale è arrivato per i politici italiani non molto tempo fa, dall’America: l’esperienza di Obama ha regalato un grande modello di campagna elettorale partita dal basso, bipartisan, incline alle nuove piattaforme, rivolta in maniera diversa ad ogni singolo target. Un mix perfetto, territorio virtuale con quello reale, uno spettacolo politico da lanciare sul web.
Quando parliamo del nuovo modo di fare politica su Internet, parliamo sostanzialmente di e-democracy, democrazia digitale, ovvero una forma di democrazia diretta e propositiva che si avvale delle nuove tecnologie dell'informazione (Internet e telefonia mobile) per rafforzare i cittadini nella partecipazione politica a tutti i suoi livelli, con l’obiettivo di rendere più trasparenti e responsabili gli attori politici. Una comunicazione im-mediata, cioè priva di mediazione, di filtri: un nuovo atteggiamento da parte dei partiti che ora ci parlano personalmente, in uno spazio che non necessita più dei tradizionali mediatori. Nuovi ruoli per tutti, insomma: per i politici, i loro partiti e per i net-cittadini, che non si distinguono oggi solo per l’età ma anche per il loro essere digitali nativi o meno.
L’elettore moderno divenuto cacciatore di informazioni con l’avvento della televisione è ormai un ricordo: dalla Seconda Repubblica in poi la politica si è fatta spettacolo e la società ha cominciato a perdere peso nell’immaginario dei cittadini, che non hanno più affezione, fiducia e contatti con le istituzioni e la vita pubblica. “Dal politichese all’antipolitica”, per citare Gianluca Giansante, un allontanamento abissale dal concetto di politica come relazione.
Cosa pubblicano i politici sul web? Cosa ne percepiamo noi, cittadini-utenti? Sicuramente una falsa spontaneità, a condire attività quotidiane, commenti, opinioni sugli eventi, self promotion, provocazioni verso i competitors, proposte e decisioni politiche in modalità broadcast spiattellate a tutte le ore sulle reti sociali, soprattutto Twitter, divenuto una vera e propria agenzia di stampa personale. Superfluo sottolineare come a cambiare sia anche il rapporto tra classe politica e giornalisti, i quali hanno ormai perduto la tradizionale posizione di privilegio nei confronti delle fonti, oggi costituite da tweet e re-tweet facilmente racimolabili sulle timeline dei politici. Non più dibattiti di piazza per la “conquista” dell’elettore, ma confronto (presunto) coi cittadini, sempre più liberi e incondizionati (in questo senso la realtà dei blog ha inciso molto sull’agenda setting dei politici), a cui dare conto del proprio operato.
Non più “saper fare” ma “far sapere”: i social network come palcoscenici ottimali per lanciare messaggi elettorali, più che creare relazioni coi cittadini; partiti, leader e soprattutto candidati mostrano la propria immagine all’insegna dell’integrità, dell’affidabilità, dell’onestà e della simpatia sui social, volta a condizionare il cittadino elettore. Informare, creare intimità, abbattere le barriere del “scena e retroscena” politici, chiedere il voto (soprattutto dei giovani, il cui interesse per la politica sul web li ha spinti ad andare alle urne con maggiore frequenza), accorciare le distanze con tutti gli strati sociali ma facendolo a senso unico: dietro ogni singolo tweet dei personaggi politici c’è tutto questo e nulla di tutto questo è casuale, bensì il frutto di strategie efficaci e specifiche per non sfociare in un palese utilitarismo. La comunicazione dei social ha i suoi contenuti, è altamente e quotidianamente monitorata, senza distinzioni geografiche o di partiti. L’interrogativo sorge spontaneo: è davvero cambiato qualcosa oltre all’ampiezza della platea?
Tutti noi, cittadini utenti, amiamo i social sostanzialmente per l’illusione, che è la medesima del concetto di interazione, di poter entrare realmente in contatto con personaggi pubblici verso cui abbiamo interesse, siano essi politici, dello sport o dello spettacolo. Poco importa se effettivamente poi l’interazione diretta avvenga o meno (rarissimo, il rapporto è quasi sempre unidirezionale); è sufficiente la possibilità di creare questa vicinanza, di accarezzare un modello conversazionale che i social offrono e che li rende seduttivi. I post dei politici sono particolarmente apprezzati proprio per questa illusione, l’idea di avere finalmente voce in capitolo, abbinata ad un potenziale potere di sorveglianza volta ad individuare e segnalare mancanze, contraddizioni ed errori da parte della classe politica. O al contrario, la possibilità di un arrogante sostegno a suon di like e commenti verso le proprie idee o ideologie. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a molti episodi di mobilitazione dei cittadini alla ricerca di diritti e democrazia: resta da capire se le nuove tecnologie e i social network siano stati e siano oggi un reale spazio di aggregazione e attivismo politico (mossi dalla sfiducia e dalla preoccupazione) oppure delle semplici casse di risonanza.
Tutto questo rende il web il palcoscenico principale delle campagne elettorali e dei suoi attori, che si relazionano più con le piattaforme che con gli utenti. Ogni post sui social ha una diffusione grandissima e in virtù di questo anche ogni errore può avere un effetto boomerang dannosissimo. Sui social i partiti hanno tutti le stesse possibilità, anzi sono quelli minori a trarne maggiori benefici: nel 2015 ad utilizzare maggiormente i social network furono partiti nuovi o di nicchia come il Movimento 5 stelle (vero e proprio partito della Rete) o Fratelli d’Italia. Discorso opposto invece per quanto riguarda i followers: ad essere più seguiti sono quegli esponenti più noti, con una carriera più rilevante alle spalle o che più semplicemente sanno utilizzare al meglio queste nuove strategie comunicative (si pensi all’onnipresenza di Matteo Salvini su queste piattaforme).
Di certo in tempi elettorali televisione e Internet vengono utilizzati in piena sinergia per ottenere il massimo della visibilità e rivolgersi a tutte le generazioni, ma al tempo stesso una partecipazione così intensa e non più top-down ha creato una frammentazione che favorisce l’incontro di idee simili o radicali (una sorta di “lobbismo del web”) che di fatto sancisce la presenza di più pubblici anziché di un’opinione pubblica, e gli ultimi eventi di cronaca ne sono la conferma: i fatti di Macerata hanno diviso il web tra antifascisti e tifosi della destra sovranista, oltre ad aver spostato significativamente gli equilibri del consenso verso l’uno o l’altro partito. Il rischio è quello di un vero e proprio web-sciacallaggio politico, rafforzato dall’onda dilagante delle fake news, volto a sfruttare al massimo i sentimenti reazionari da tempo sedimentati sulla Rete ed infiammare le masse in un paese altamente diviso e provato dalla crisi economica.
Non molto tempo fa Evan Williams, fondatore di Twitter, aveva dichiarato la sua preoccupazione nei confronti della forza strabordante che i social media stanno dimostrando a tutti i livelli, compreso quello politico: “La Silicon Valley si percepisce come Prometeo, che ha rubato il fuoco agli dèi e lo ha consegnato ai mortali. Quel che tendiamo a dimenticare è che Zeus se la prese così tanto con Prometeo che lo incatenò a una roccia, così che gli uccelli potessero mangiarne le viscere in eterno. Qualcuno potrebbe ora dire che è quello che ci meriteremmo”. I rischi, stavolta reali, per la società, sono davanti ai nostri occhi ogni giorno e quello principale è uno solo: essere sempre più “citizens” e sempre più inascoltati, sempre più “strumenti” e sempre più frustrati. Come ai tempi dei “santini”, se non peggio.