Eugenio Scalfari, 98 anni, non è più.
“Il direttore” per la sua Repubblica, Il Fondatore per gli antagonisti de “Il foglio”, “Barbapapà” per la prima redazione di Repubblica che arringava promettendo “libertà di saccheggio” e facendo ascoltare all’interfono in viva voce le telefonate con i potenti durante la celebre riunione del mattino che iniziava alle 10,30 e finiva alle 13.
Al netto di come la si pensi è stato il più grande giornalista italiano del Novecento. Ha fondato l’Espresso con Arrigo Benedetti e Carlo Caracciolo, dal nulla creò Repubblica, primo giornale tricolore a lanciare il tabloid di successo, nuovo per linguaggio e concezione. Ha nei fatti influenzato con il suo giornale-partito non solo la politica ma anche il costume e la cultura italiana con pagine innovative, firme brillanti e campagne stampa che hanno lasciato il segno.
Anche Scalfari come firma ha lasciato spesso il segno. All’Espresso con Lino Jannuzzi fa tremare il Palazzo con la clamorosa inchiesta sul Sifar, il piano Solo e le mire golpiste del generale De Lorenzo. Querelato fu salvato dalla condanna in primo grado, da Giacomo Mancini, che da vicesegretario del Psi impone a Nenni e De Martino la candidatura in Parlamento ai due giornalisti che potranno avvalersi con l’elezione dell’immunità parlamentare.
Brillante fustigatore in economia. Il suo libro “Razza padrona” scritto con Giuseppe Turani è la fulgida denuncia della borghesia parassitaria che accumula fondi pubblici.
Scalfari era in grado di avere informazioni molto riservate in economia, infatti la Presidenza del Consiglio fu costretta a bloccare una sua rubrica di commento alla Borsa per le proteste degli operatori che denunciarono l’influenza sull’andamento dei titoli. Scalfari era stato assunto da giovane alla Banca Nazionale del Lavoro all’ufficio Esteri.
Repubblica è stata sotto la sua direzione di potere e contropotere. All’inizio anche gli autonomi la preferivano a “Lotta continua” comprandola insieme ai repubblicani e ai democristiani, poi diventò giornale status da portare sottobraccio. Ha fatto cambiare quotidiano ai comunisti che prima acquistavano Unità e Paese Sera; con lo scandalo P2 acquisì la borghesia moderata rimasta traumatizzata dal gioco sporco del Corriere della Sera schierando i corrieristi Pansa, Ronchey, Cavallari, Biagi, Arbasino, solo Stille disse no.
Sull’onda del successo allargò allo sport (all’inizio non previsto come settore) chiamando Gianni Brera e inventando Gianni Mura e Emanuela Audisio. E anche qui nulla fu come prima.
L’informazione sullo spettacolo fu invece subito di gran qualità. Molti compravamo Repubblica saltando la prima sezione per leggere direttamente di rock, cinema, teatro, con servizi dedicati a quello che gli altri giornali ignoravano.
Dal duello con Bettino Craxi e Berlusconi alla Guerra di Segrate una biografia professionale immensa che non ho l’ardire qui di trattare nella sua vastità contemporanea.
Mi permetto di esplicitare alcune divergenze con Scalfari giornalista che ho quasi sempre letto e a volte criticato.
Durante il caso Moro con Repubblica fu l’alfiere del partito della fermezza e scrisse di proprio pugno rispetto alle lettere dello statista che scrisse dalla prigione delle Br: “lo stile e il contenuto del messaggio fanno ritenere che Aldo Moro sia soggetto a pressioni di natura tale che la parola tortura non è lontana dalla verità delle cose”. Scalfari piegò la verità al suo volere procurando un alibi di ferro ai partiti del compromesso storico impedendo qualsiasi possibilità a Moro di sopravvivere.
Ai tempi del Processo 7 aprile istruito dal magistrato Calogero contro l’Autonomia di Negri e Piperno, lembi non clandestini e avversari delle Brigate Rosse non fu imparziale in quella Eclisse del diritto e della stampa. Repubblica per anni scrisse notizie non vere mai smentite dai fatti, mai pubblicò le rettifiche di parte degli avvocati neanche quelle più evidenti. Il liberale e radicale Scalfari aveva venduto le sue idee all’interesse di parte dimostrandosi buona razza padrona del giornalismo italiano.
Infine nei recenti tempi con la sua Repubblica acquisita dagli Elkann-Agnelli per modificarne la linea del prode direttore Carlo Verdelli, il Fondatore Scalfari non ha speso una parola sul giornale uscito dai binari della sua storica collocazione preoccupandosi soltanto delle sue interviste inventate con il Papa, delle pubblicazioni dei suoi libri, dei suoi dialoghi con Dio e con il suo spropositato Io, e degli editoriali domenicali pubblicati sulla pagina della sua amata creatura di carta. Con l’età si era purtroppo trasformato in un qualunque don Abbondio.
Una chiosa biografica la dobbiamo alle sue origini calabresi ben raccontate con buona esegesi da Rocco Greco per LaC (https://www.lacnews24.it/rocco-greco/la-calabria-di-eugenio-scalfari_76667/) che ha magnificamente raccolto notizie dai suoi testi. Purtroppo non mise mai questione sentimentale per far nascere un’edizione calabrese di Repubblica, proposito che si arenò sempre davanti ai problematici numeri di vendita e di introiti pubblicitari della nostra regione.
I suoi amati giornali, Espresso e Repubblica, oggi sono in mano alla nuova razza padrona italiana ben diversa da quella dei Caracciolo, dei De Benedetti, della vecchia Mondadori. Editori che non furono mai veri padroni di un grande gruppo editoriale che con le sue diverse testate è sempre stato deciso dai suoi direttori.
Con Eugenio Scalfari muore e si archivia nei libri di storia una delle pagine più vive del giornalismo italiano. Al di la del bene e del male.