Sulle sponde del mar Jonio, Cristo si è seduto e ha pianto

Sulle sponde del mar Jonio, Cristo si è seduto e ha pianto
Domanderò perdono a Paolo Coelho per aver riutilizzato il titolo di un suo libro per dare voce ai miei pensieri che ancora respirano l’aria di mare dopo che i miei occhi hanno visto, ancora una volta, l’orrore dell’olocausto moderno. Sulle sponde del mare Ionio, oggi, all’indomani dell’ennesima ecatombe marina, ho visto Cristo sedersi sulla battigia e piangere.  L’ho visto superstite di quella umanità che si è smarrita nelle traversate asimmetriche del “Mare Mostrum” che non è più “Nostrum”, perché non può appartenerci più un luogo diventato trincea di sopravvivenza, cimitero liquido.
Un esodo che non si arresta.

Sono migliaia le persone che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa negli ultimi mesi e l’ennesimo naufragio avvenuto sulle coste calabresi, domenica scorsa, ci mostra il vero volto di una umanità negata, simbolo di tutti gli scartati che, in fuga dai propri paesi, sta mostrando il fianco peggiore degli effetti della globalizzazione. Un popolo in cammino che non batte nessuna bandiera, che sogna di abbracciare i colori di un tricolore condiviso, amato, disperato e che trova morte certa partendo da un certo lontano per raggiungere mai, un ipotetico qui.

Eppure ci siamo concessi di sognare, come Chiesa e come uomini e donne del mondo, un popolo in cammino, un mondo che fosse crocevia di identità, di culture, di vite, di pelli che fanno all’amore, si mescolano e cambiano colore. Oggi siamo, invece, tutti un po’ Caino, io sono Caino, nella misura in cui non mi sento responsabile di questi nostri fratelli, di queste nostre sorelle, che sono finiti nella morsa delle onde sognando la terraferma. Hanno trovato, invece, una “terraspenta”, spenta nel baratro di politiche europee e nazionali che evaporano diritti nel ping-pong della responsabilità.
E qui si muore.

Oggi a Cutro è andata in scena una tragedia d’amore, come quella di Leandro ed Ero, delle penne di Ovidio e Grammatico, che ci arriva struggente, che si legge solo nei libri, che ci restituisce il dramma di un giovane che per amore sfida i flutti fino a morire annegato dal mare feroce, in tempesta. Così questo “sinodo” di migranti che per amore della vita sfida la sorte, oggi ha trovato la morte a pochi metri da quell’arenile spersonalizzante che rappresenta la terra tanto desiderata.

Quella dei migranti è una storia d’amore ma è anche una storia di morte, inevitabilmente accettata.

E gli occhi del mondo, quelli inspiegabilmente asciutti, guardano le guerre che si moltiplicano, con il costante aumento della spesa per la produzione ed il commercio delle armi, con l’inarrestabile crescita delle disuguaglianze, con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, con lo sfruttamento indiscriminato delle risorse ed i drammatici effetti dei cambiamenti climatici che colpiscono in misura maggiore i paesi più impoveriti. Sono tutti fenomeni che ci impongono di ripensare alla modalità di stare non solo in questo paese e in questo continente ma
nel mondo, che dovrebbero portarci a mettere seriamente in discussione il modello economico su cui ci basiamo e ad ascoltare molto di più il grido di aiuto che i poveri e la terra ci lanciano.

Se non siamo disposti a porgere l’orecchio del cuore, allora non piangiamo. Non rendiamo questo pianto una pericolosa ipocrisia se poi, ciascuno e ciascuna di noi, non è disposto a fare dell’accoglienza il nuovo Vangelo, la dimora disattesa per chi ha fame, per chi ha sete. Non piangiamo davanti a un biberon che apparteneva ad un bimbo che dalle braccia della sua mamma è finito nel ventre delle onde. Non piangiamo se non ci indigna scorgere sotto un lenzuolo bianco delle gambette che avrebbero voluto ancora pedalare quella bicicletta, ora diventata cimelio tra le sabbie. Non piangiamo se per tutti noi questo non è il tempo della responsabilità.

Papa Francesco con quattro verbi ha indicato alcuni percorsi possibili per affrontare il tema della mobilità: accogliere, proteggere, promuovere ed integrare. Accogliere vuol dire raccogliere, ogni uomo, ogni donna, ogni bambino o bambina rimasti impigliati sul fondo di dolore della propria terra; proteggere vuol dire farsi braccia di madre, farsi braccia di padre per quegli occhi sconsolati e stanchi; promuovere significa muoversi a favore della garanzia di una vita migliore; integrare vuol dire rendere sostenibile il distacco dalla propria casa per restituire dignità a chi, una casa, non l’ha mai avuta.

Mi sembra di cogliere che il dibattito sulle migrazioni si presenta invece troppo spesso confuso, a volte fazioso, troppo ideologico, ammantato da una terminologia allarmistica che non aiuta a comprendere l’essenza di questi avvenimenti.

Emergenza sbarchi, morti in mare, emergenza accoglienza sono le parole e gli aspetti più importanti di chi come noi guarda al fenomeno con gli occhi del nord del mondo, senza interrogarsi più di tanto sulla natura del fenomeno stesso, le sue cause, le politiche per affrontarla. Gli stessi trafficanti, sono il prodotto di scarto di politiche e modelli economici iniqui che costringono i migranti e i rifugiati a mettersi nelle mani di chi lucra sul loro destino, pur di trovare una soluzione alla loro precarietà esistenziale.

L’Europa sembra incapace di reagire perché vittima di una idea anacronistica di territorio e di confine. Da un lato si presenta come paladina dei diritti umani, dall’altro promuove politiche di esternalizzazione volte a tenere lontano dai confini europei i migranti e tutto il loro carico di dolore e di speranza. Per alcune politiche i migranti sono, infatti,
pericolosi ed ingombranti, qualcuno che sovverte ordini prestabiliti e antichi, l’hostis che preoccupa e mina le tranquillità nazionali.

Oggi non si tratta più solo di prevedere fondi comunitari a cui attingere per calmierare l’emergenza, bensì di andare incontro ad un fenomeno in costante mutamento che chiede con urgenza e senza ulteriori rinvii una riflessione di sistema proprio sulla mancanza di programmazione di interventi sinergici e congiunti a livello europeo, per mettere in atto quei “canali umanitari” che consentono a coloro che comunque arriveranno in Europa di non rischiare costantemente la vita. Un piccolo segno sono ad esempio i corridoi umanitari, che consentono non solo arrivi in sicurezza, ma anche l’inserimento dei migranti nel tessuto sociale locale, aiutandoli a sentirsi parte di una comunità, di un cammino condiviso di reciprocità . Pensare in generale all’attuazione di canali umanitari significa, anzitutto fare delle scelte politiche precise, scaturite dalla presa di coscienza che gli investimenti sul fronte del controllo delle frontiere e del contrasto all’immigrazione irregolare non sono evidentemente né sufficienti né tantomeno adeguati a gestire la richiesta di protezione internazionale.

L’invasione dell’Ucraina, che da un anno ha riportato la guerra nel cuore del nostro continente, è ulteriore segno di contraddizione. In questa tragica circostanza l’Europa si è unita ed è stata capace di riaprire le frontiere per milioni di ucraini. Allo stesso tempo però ha mantenuto le pratiche di chiusura e di discriminazione, di rimbalzo di disponibilità nei confronti di tutte le altre persone che come gli ucraini scappano da conflitti e violazioni dei diritti. Un doppio standard inaccettabile: accoglienza per qualcuno e respingimenti, mancanza di posti di accoglienza e di accesso alla procedura di asilo, per gli altri.

Serve quindi una strategia organica, condivisa, a medio termine, che coinvolga anche i governi dei paesi di provenienza dei migranti in modo che diventino partner affidabili, capaci di porre i diritti umani e lo sviluppo al centro del loro operato. La decisione di emigrare dovrebbe essere volontaria e avvenire in maniera sicura, legale ed ordinata. Ognuno deve essere realmente libero di partire, ma anche di restare o di ritornare nella propria patria.

Certo, nel breve termine è difficile poter pensare ad altro se non a ragionare su come garantire a chi riesce ad arrivare una tutela e un'accoglienza dignitosa. Un ragionamento che non può prescindere da un’Unione Europea basata sulla solidarietà e sul sostegno concreto. L’Europa non deve e non può lasciare sola l’Italia. Qui si gioca la civiltà dell’Europa e l’onestà della democrazia.

Da parte nostra come Chiesa, dobbiamo attivare processi di cambiamento. Che fine ha fatto anche nei nostri ambienti il principio della fraternità? È tempo di rimettere al centro delle nostre comunità la grande questione della fraternità inclusiva per riaffermare il primato della persona e dello sviluppo integrale dell’uomo, di ogni uomo, cercando - con caparbietà e nonostante tutto - spazi per costruire pace, agire e credere in un mondo riconciliato, dove le differenze siano linfa nuova e non occasioni di sospetto e di conflitto. Così saremo sempre più sale e fermento, in un cammino di “conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose
come stanno; (EG n. 25).

E ora è tempo di silenzio, quel silenzio che pondera e risponde, che si asciuga gli occhi, che guarda al Cristo superstite piangere e pregare affinché al mare sia affidato solo il canto delle sirene e mai più il pianto di un bambino che avrebbe voluto conoscere, gustare, amare il mondo, sulla sua bicicletta.
Nella preghiera, figlio del mondo, ora puoi toccare la tua Italia.

*Vescovo di Cassano all’Jonio - Vicepresidente della CEI per il SUD