L'INTERVENTO. Il caso di Silvia Romano tra provincialismo, odio e ignoranza

L'INTERVENTO. Il caso di Silvia Romano tra provincialismo, odio e ignoranza

silvia romano

La diatriba generata dalla liberazione di Silvia Romano e tutte le vicende collaterali all’evento, riguardo i pro e i contro dell’intera operazione manifestano ancora una volta il “provincialismo” del quale è affetta l’Italia e gran parte di coloro che vantano istruzione e informazione riguardo religione islamica e politica estera. Volendo tralasciare l’odio espresso dai fanatici sui social e restando terra terra nel ragionamento, è chiaro che tanti parlano di una cultura che non conoscono e di abitudini, anche riguardo all’abbigliamento, lontani anni luce da quelli ordinari delle donne occidentali.

Allora perché non tentare di comprendere prima di giudicare, prima di schierarsi anche ferocemente da un lato o dall’altro? E la parola a chi darla se non a coloro che l’islam lo vivono quotidianamente? Lo stesso per quanto riguarda l’Africa. Chi può raccontarci delle abitudini delle donne somale più dettagliatamente di una donna di origini somale? In proposito gli unici commenti veramente interessanti e sensati sulla vicenda sono stati quelli espressi dallo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun su Repubblica e dalla scrittrice italiana di origini somale Igiaba Scego sulla rivista on line Fanpage.

Il primo pone in evidenzia che l’Islam al quale si “sarebbe” convertita Silvia Romano è ben diverso dal credo professato da milioni di musulmani in tutto il mondo. L’Islam che la ragazza può aver conosciuto durante la prigionia è quello del gruppo al-Shabaab che l'ha rapita il 20 novembre 2018 nel sud-est del Kenya dunque un modo di intendere il corano “rigorista, integralista e antioccidentale”. In altri termini i rapitori di Silvia Romano fanno parte di un movimento radicale che poco ha a che spartire con la religione e la libertà di culto professata in piena coscienza da tanti musulmani in occidente. E questo dato, illustrato dallo scrittore, pone in evidenza come effettivamente la libertà e lo spirito della ragazza possano essere stati coartati durante la prigionia al punto da nutrire forti sospetti sulle scelte che ha compiuto.

Igiaba Scego invece racconta gli abiti delle donne somale, esprime l’amore per i colori che esiste in Africa e spiega che la Somalia di oggi è un paese dilaniato dalla violenza e dalle guerre intestine, un paese in cui non si indossa solo il vestito verde (ibaya) portato da Silvia Romano ma si indossano anche i jeans stretti, proprio come fanno tante ragazze in Europa, anche di origine straniera. E dunque quel lungo indumento monocolore e senza forma non viene usato tanto di frequente in Africa e soprattutto non è un vestito “tradizionale”.  

È chiaro quindi che bisogna abbandonare gli stereotipi e inquadrare i fatti nella direzione giusta lasciando che siano i nostri vicini di casa e i nostri amici musulmani ed afrodiscendenti a esprimere giudizi su eventi che riguardano la loro cultura di origine. Le nostre abituali categorie di pensiero non sono utili e anzi sono fuorvianti, frutto di pregiudizi ed anche di visioni distorte che non ci aiutano a stabilire un rapporto di serena convivenza con chi è di origine straniera ma oramai da anni sul suolo italiano.

Invece sono stati pochi i commentatori musulmani della vicenda, quasi nessuno ha spiegato come avvengono le “conversioni” da adulti, nessuno ha chiarito che la lingua del corano è l’arabo classico, e che Silvia/Aisha avrebbe dovuto pregare in arabo per essere ritenuta una degna seguace del profeta Maometto. Gli italiani “puri” hanno fatto la parte del leone e così l’odio si è propagato sino a giungere in Parlamento, proprio in quel luogo dove i diritti delle minoranze confessionali ed aconfessionali dovrebbero essere pienamente garantiti.

Viste le tendenze dei tanti facinorosi leghisti e il patriottismo di facciata ostentato dalla maggioranza degli appartenenti alla cultura cattolica, certamente l’arrivo a Ciampino della giovane “liberata” ma abbigliata in maniera poco occidentale doveva essere sicuramente meglio gestito dalle autorità. Si voleva lanciare un messaggio di entusiasmo per l’otto maggio – festa della mamma- in un paese improntato al familismo e intristito per le morti da Covid-19 e invece non si è fatto altro che consentire la lapidazione simbolica – solo verbale - per fortuna, di una giovane inesperta ed ingenua che arrivata per ragioni filantropiche in Kenya si è trovata suo malgrado impigliata in una situazione, sin da subito, difficile.