(Dal nostro inviato speciale), CATANZARO, agosto. Ho visto il matrimonio di Leotta Salvatore di anni ventotto, pescatore, e di Spadeo Assunta, di anni diciotto, casalinga, nella chiesa non finita di Soverato sullo Jonio. Ma quando mai una costruzione in Calabria è finita? In questa Calabria, almeno, che è stata Magna Grecia, e dopo più niente, se non luogo di terremoti e alluvioni, e paura di vivere, e rocce che si sgretolano come i denti di un vecchio, e sabbia. La chiesa di Soverato è rotonda, a Pantheon, con travature scoperte di ferro. L’ora del matrimonio è le undici: un caldo di fuoco, dieci garofani bianchi, contati, sull’altare maggiore, la “pezzara” calabrese, tessuta a telaio con rimasugli di stracci, è il tappeto dove camminerà la sposa, il matrimonio di Leotta Salvatore mi pare valga per questo, la povertà grande (il reddito medio annuale, nei paesi dello Jonio, è di centocinquantamila lire); ed è una povertà vergine, non corrotta da usanze, imitazioni di lussi borghesi o cittadineschi. Se non per l’abito della sposa, che sembra una bambola nella vetrina di un emporio; ha la gonna col cerchio, i guanti da cui traspare la mano scura e quadrata, i merletti impietrati, duri sul seno.
Ma la piccola faccia seria, senza mai un sorriso, e giovane, basta a renderle la dignità naturale: grazia scontrosa e pudore primitivo, una altera dolcezza. Il marito è bello, grande, il nitido profilo rettilineo che denuncia l’origine greca, gli occhi chiari come sugo di limone tra le rughe precoci dei marinai. I testimoni sono senza giacca, padroni della barca dov’è arruolato lo sposo: camicia pulita di tela casalinga, e pantaloni neri di lana. Nei banchi le donne hanno fazzoletti di cotone o blu o neri poggiati sul “tuppo”, com’è l’uso delle donne dei pescatori: e il pettine con gli strass, gli orecchini falsi di brillanti, corpetto e gonna arricciata e grembiule, e le scarpe maschili. Due, giovani, sono vestite borghesemente: merletto nero su fodera rossofuoco, merletto giallo su fodera blu Madonna. Le bambine hanno tutte la borsa di plastica. Il parroco è un piemontese, il momento dello scambio degli anelli è difficile, la sposa continua a farsi vento con le mani imprigionate nella garza–tulle dei guanti, insieme alle fedi d’oro rosso il testimone (o “compare”) versa nelle mani del parroco sgomento catene e medaglie da benedire. Alla firma portano un tavolino e una sedia di lato all’altare, e commuovono le labbra sbarrate dello sposo, che fatica a scrivere, le mani aggrappate alla penna, e, dopo, la trepidazione di lui quando la prova tocca alla moglie, e si vede che vorrebbe aiutarla ma non può.
Finisce il matrimonio, che non ha avuto musica, niente: e gli invitati baciano gli sposi (gli uomini lo sposo, le donne la sposa) , ed è una litania di baci senza un sorriso, il silenzio, il buio splendore del cielo di mezzogiorno che invade la chiesa, traverso l’arco vuoto della porta. Invitano il parroco e me per un bicchierino. La casa della sposa è una stanza con le mura coperte da lenzuola di bucato, e gli ornamenti di rami teneri d’ulivo. Sul tavolo ci sono quindici tramezzini con la mortadella, un “bavano” di cavolfiore all’aceto, due piatti di frittura di pesce, due bottiglie di strega.
Ed a questo modo può ancora oggi cominciare la vita matrimoniale di una donna, in Calabria. E non sembrano nemmeno tanto lontani i tempi -1864 – del prete poeta, Professure Padula il quale scriveva: “La nostra contadina in aprile sogna i fiori e il bracciante è contento perché in Calabria per dormire a letto bisogna essere marito. Il bracciante fino a due anni dormì nel misero letto dove fu concepito, nacque il secondo fratello ed egli fu respinto nella parete inferiore, nacque il terzo ed egli uscì dal letto e dormì sopra il cassone; nacque il quarto e cadde giù dal cassone e si trovò a dormire sopra la pietra del focolare”.
Spadeo Assunta di anni 18, nelle pubblicazioni, in chiesa e in municipio, s’è dichiarata “casalinga”. Ma una stagione si e una no ha sempre fatto, come sua madre e le tre sorelle, la raccolta delle olive. Fino a qualche anno fa, le raccoglitrici d’olive guadagnavano trecentocinquanta lire al giorno: poi sono passate a settecentocinquanta, ora a millecento. Le calabresi che raccolgono olive sono molto numerose, circa quarantamila nella sola zona di Gioia Tauro. “Queste donne – scrive Renè Nouat, nel saggio La Calabria – solo molto raramente sono reclutate dall’ufficio di collocamento: di regola lo sono direttamente dai “caporali” che poi le sorvegliano senza discrezione durante tutto il periodo di lavoro. Le giornate vanno da dieci a dodici ore, secondo la stagione…”.
A Soverato c’è una ragazza che sta facendo la carriera di segretario comunale. Per ora il suo ruolo è di applicato di concetto, guadagna centocinquemila lire al mese, mantiene la madre e la sorella più piccola. Ha ventiquattro anni, mangia bistecca e insalata, se l’invitano a cena, come ha visto che fanno le ragazze di Roma (alcune) quando “sale al Nord” per i suoi quindici giorni di ferie; o forse l’ha letto nei giornali femminili, la costruzione coraggiosa della ragazza meridionale di oggi comincia anche da questi dettagli, la lotta per evitare gli spaghetti a tavola, il pianto della madre per le vacanze autonome di una figlia da marito. Maria Alecce ha ventiquattro anni , è praticamente la collaboratrice diretta del sindaco di Soverato, parla della sua vita – ed anche del suo paese – con intelligenza: dopo una premessa che può sembrare nevrotica, “io ho bisogno di parlare con tutti, ho bisogna di parlare, scusatemi, qui non ci sono molte occasioni di parlare”: e non è nevrosi, o, se lo è, ha una radice comune, chiara: “il calabrese vuole essere parlato”, come scriveva Alvaro, “la persona colta … trova raramente l’occasione di vere e proprie comunicazioni personali poiché in nessuno strato della popolazione calabrese se ne ha l’abitudine “ (dal saggio “La Calabria”).
Allora, questa è la vita di Maria Alecce, in un paese di 5500 abitanti, 480 telefoni (è l’orgoglio di Soverato sullo Jonio), tre alberghi in costruzione, per lo sviluppo del turismo, una cava di quarzo, chiusa, una di marmo, alcune miniere di grafite, qualche fabbrica (marmi, rigeneratori di copertoni, cementificio), una scuola alberghiera, un premio letterario nuovissimo e, almeno nella sua prima edizione, seriamente qualificato.
Maria Alecce va in ufficio, cioè al municipio dalle otto e mezzo all’una e dalle quattro alle otto. Nell’intervallo, l’estate, scende alla spiaggia per fare il bagno, la sera può andare a ballare accompagnata da un cugino – e in paese la criticano molto, per questo – le domeniche d’inverno le passa al cinema, nei due cinema di Soverato, dalle tre del pomeriggio alle nove di sera, tutti i ragazzi del paese, l’inverno, stanno alla università a studiare, a Roma, a Messina, a Bologna ecc. E le ragazze sono sole, si balla nei quindi giorni da Natale all’Epifania, quando tornano gli uomini. Le ragazze, poche, che sono iscritte all’università vanno a Messina soltanto per dare gli esami, accompagnate dalla madre. Naturalmente a Soverato non ci sono teatri: funziona la filodrammatica dei salesiani, con gli attori tutti uomini, le commedie scritte dal “Padre Prefetto” dove il personaggio femminile non compare mai in scena. “L’ultima volta – racconta Maria Alecce – finiva così, con un telegramma: “Non aspettatemi, ho deciso di farmi suora, firmato Lalla”.
Scriveva Corrado Alvaro nel 1953 “La donna è il personaggio più importante ed autentico della Calabria. E’ anche il lusso di una natura scabra, immiserita dagli uomini “. Ed ancora: “Gli sforzi delle donne calabresi, per uscire dallo stato di servitù. E non professano idee rivoluzionarie”.
*Pubblicato sulla Stampa di Torino il 22 agosto 1964.