«Avevo già i miei 27 anni. Ero uomo. Ma che uomo sei se ti manca il lavoro e il mondo si rifiuta di darti una mano? (…) Ci domandiamo spesso come l’Italia sia andata avanti con tanto malcostume e disorganizzazione. (…) La guerra non aveva cambiato la condizione di noi lavoratori. Solo protestare si poteva, parlare tra noi in piazza, o nella sede del partito. Qualcuno proponeva di rompere tutto, com’era avvenuto a Caulonia, di squassare il paese, di dare fuoco alla casa del prete e del barone. Ma il segretario della sezione raccomandava la calma, la prudenza, l’ordine. La rivoluzione violenta era inconcepibile, assurda. Bisognava saper lottare col voto.»
Tornato per qualche giorno nel reggino, Salvatore, ormai emigrato da anni, narra – un po’ a se stesso, un po’ ad un amico che sogna di trarne un libro – la propria vita: il rapporto conflittuale col padre, uomo dal carattere difficile e mastro muratore bravissimo che, con durezza, gli ha insegnato il mestiere, («il mestiere (…) è sapere e arte insieme»); l’insofferenza nei confronti del regime fascista e il disprezzo nei confronti del barone Fofò, potente del luogo; la fame mai placata dal poco pane che gli toccava; i litigi con la madre, che lo tormentava perché procurasse, dopo la morte del padre, pane per tutta la famiglia, («la mancanza di lavoro e di avvenire provoca i nervi»); la fuga verso la Svizzera: «Vivevo un incubo che non potrò dimenticare. In corpo non avevo che odio smisurato verso i governanti, verso i ricchi che mi avevano sbattuto fuori casa.»
In Svizzera, ha vissuto per qualche tempo in una baracca con quindici persone, ma il lavoro gli ha fruttato ben presto un’autonomia mai vissuta e la possibilità di aiutare la famiglia d’origine e farsene una propria e di far studiare il fratello minore. Le difficoltà non sono scomparse: «L’opinione pubblica è incapace di pietà, di amore, di commozione. Ma si sentono la coscienza a posto, gli svizzeri: hanno fondato la Croce Rossa. Nessuno può immaginare cosa noi sopportiamo in quel paese. Nessuno. I giornalisti raccontano frottole. (…) Che vadano a vivere nelle baracche, nei lager di Baden, in quattro anime in una stanzetta di tre metri per tre. Non si è liberi di fare un rutto in tranquillità, non ci si può concentrare nei propri pensieri. Se togliete questo piacere a un lavoratore non so proprio cosa gli rimanga di interessante nella vita. »
Il prezzo è stato e continua ad essere alto, ma la realtà del presente non è identica a quella del passato: «Se confronto l’esistenza di quegli anni, il modo di vivere di tutti, a oggi e al mio personale modo di vivere e di tutti quelli come me che lavorano al Nord e ci tornano non più da umiliati pezzi di merda che dovevano sberrettarsi davanti ai cappelli che non si degnavano di risponderci e che ora sono scomparsi, polverizzati e i cui rampolli sono di un’ottusità e di un’ignoranza inimmaginabili, il cuore mi si allarga. Certo è una vittoria che abbiamo ottenuta a caro prezzo. Ognuno ha imparato, anche il più ottuso, che il progresso non si arresta più e che altro d’importante avverrà a favore e a premio dell’intelligenza.»
Anche in Calabria la povertà estrema ha ceduto il posto ad un crescita di consumi: sulle tavole quotidiane è apparsa la carne di vitello. L’ambiente, pur con qualche modifica, resta chiuso e non si vede un effettivo sviluppo economico e sociale: «Dicono che non ci sono più caprai nell’Aspromonte. Sono scomparsi perfino i vaccari che aravano i campi; né fabbri ci sono che costruiscono vomeri. Non ci sono sarti né calzolai. Tutti hanno preso il volo. (…) Non mi ci adatterei più a quest’ambiente. Desidero tornare a casa, da mia moglie e dai miei figli. Dagli amici di Baden, dagli amici della Militarstrasse. Da lassù ci sfugge il vero dramma della nostra terra abbandonata e imbruttita. Da lassù non avvertiamo l’agonia dei villaggi, dei nostri vecchi. A chi arriva dal verde, dal tutto ordinato e pulito e lindo e operoso, salta all’occhio questa specie di preludio al deserto che è diventata la costa che si affaccia sullo Ionio.»
Pubblicato nel 1972 e attualmente fuori commercio (è possibile trovarne qualche copia cartacea sui siti internet), Noi lazzaroni di Saverio Strati affronta il tema dell’emigrazione: ancora attuale, per la Calabria, quasi cinquanta anni dopo: con la variante (l’aggravante?) che siamo passati da un’esportazione di braccia ad un’esportazione di cervelli.
Documento importante sulla Calabria tra fascismo e secondo dopoguerra e sul lavoro (quello che manca, quello che è soltanto martirio, quello che è puro sfruttamento, quello che è esaltazione delle conoscenze, dell’esperienza, dell’intuito), con una critica forte ad un sistema economico incapace di produrre un’adeguata crescita sociale e ad una tradizione fortemente patriarcale che rendeva le donne, «né più né meno che delle asine che vanno bardate in tutti i momenti in cui se ne ha bisogno», Noi lazzaroni è una prova narrativa di grande interesse.
Nel monologo-dialogo del protagonista, sapido di umori, di insofferenze e di passioni e in una ben costruita compresenza di più livelli temporali, con stile asciutto e linguaggio sobrio, Strati riversa nelle vicende di Salvatore la personale esperienza di migrante in Svizzera, un amareggiato e risentito senso civile e la consapevolezza che, come si scopre nel finale del romanzo, ogni uomo, magari senza volerlo e neppure saperlo, può innescare per/contro se stesso e gli altri, tragedie che non lasciano scampo.
*Mondatori editore.