LA RECENSIONE. L'idea che ci univa, Pietro Criaco, Città del Sole

LA RECENSIONE. L'idea che ci univa, Pietro Criaco, Città del Sole

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Africo, giornate particolari di lotte ordinarie

A proposito di L’idea che ci univa di Pietro Criaco

Questo libro di Pietro Criaco  (L’idea che ci univa, Reggio Calabria, Città del Sole agosto  2021) è un’opera in cui prevale, senza pregiudizio per il dipanarsi delle vicende personali dei protagonisti, la rappresentazione corale di un paese tra i più importanti per le lotte operaie e bracciantili nella Calabria del secolo scorso.

Ad Africo il movimento operaio ha avuto la sua preistoria nel periodo fascista quando emerse la figura carismatica di Santoro Maviglia di cui discorre ampiamente Corrado Stajano nel suo libro uscito per Einaudi nel 1979; da Don Santoro, così era chiamato per il rispetto che la sua storia personale riscuoteva fra i suoi concittadini, e dalla sua oratoria lineare e potente si sono formati i quadri che hanno guidato il PCI nella seconda metà del Novecento: un suo figliolo, Pepè, fu anche sindaco del paese prima dell’emigrazione definitiva e un altro (Francesco, Cillo, Cillarino) assomigliava, perché ora è da tempo nel mondo della verità, molto al personaggio del libro di Criaco che si chiama Ciccio o Francesco  e che nella storia svolge la funzione di segretario della Camera del Lavoro: carismatico egli stesso e sempre proteso nella non facile opera di mediazione tra la spinta  sovversiva dei giovani e  la necessaria, perché la lotta non sia fine a sé stessa, sussunzione dei loro interessi nell’ambito del mondo istituzionale:

Ancora una volta la meta è sempre la stessa: la Camera del Lavoro. Là si discute sempre e si scambiano i punti di vista, le impressioni sulla situazione sociale e politica. Come sempre, Francesco è il punto di riferimento e Paolo si intrattiene sovente con lui a parlare di linee politiche, rivendicazioni, iniziative a livello locale.  Francesco gli sembra un medico che ha in cura gli incerti, quelli che sono orientati versi facili estremismi, o i malati di rivoluzione (p. 202).

Il libro racconta nella prima parte (fino a p. 127) la storia di alcune giornate incandescenti di inizio anni Settanta del Novecento quando seicento celerini vennero incaricati dal Prefetto di Reggio Calabria di togliere il blocco sulla Strada Statale 106 e all’altezza del paese di Africo Nuovo.

I poliziotti hanno l’ordine di mettere a soqquadro anche la cittadina per dimostrare che lo stato aveva il controllo del territorio a dispetto di un popolo inquieto, reduce da un drammatico trasferimento urbano (dall’Aspromonte più selvaggio alla marina prossima a Capo Bruzzano) per le alluvioni del 1951 e 1953 e passato attraverso precarie sistemazioni di durata più che decennale nel capoluogo e in altri paesi della provincia reggina.

Gli africoti (uomini, donne, giovani e persino gli adolescenti) vengono ritratti da Criaco con forte realismo mentre, guidati dal segretario della Camera del Lavoro e da un deputato regionale, preparano e mettono in esecuzione (a mani libere, con bastoni o con altre armi improprie) il blocco stradale per chiedere lavoro, infrastrutture urbane, diritto allo studio.

I poliziotti caricano i dimostranti, li inseguono senza tregua per le vie del paese, rompono teste e braccia a manganellate e alla fine arrestano alcune donne, un vecchio (dopo avergli spaccato due denti: non c’era verso di fermare il sangue. Io urlavo e loro picchiavano, sembravano posseduti da una forza del demonio. È una vergogna, non c’è più rispetto per i vecchi. p. 96) un tredicenne (Antonio, fratello del protagonista), un uomo malmenato prima dell’arresto ( Carmelo: Erano in tre e sembrava che facessero a gara a chi pestasse più forte. Meno male che si è avvicinata comare Caterina, tua madre, dice rivolto ad Antonio. Lei ha avuto il coraggio di affrontarli e loro hanno smesso… p. 96) e Domenico, un altro manifestante.

Il popolo non ammaina le sue bandiere e, ogni giorno, organizza una manifestazione sotto le mura del carcere di Locri, dove sono detenute le persone arrestate, chiedendo sostegno ai collettivi studenteschi della zona: Francesco è nella prima fila del corteo che arriva davanti al carcere. Accanto a lui ci sono altri giovani di Africo che non la smettono di urlare. Parecchi amici di Siderno e Gioiosa sono schierati con bandiere e striscioni lungo la strada. Un serpentone rosso che si snoda per le vie della cittadina, vociante e vivo, potente e impetuoso come un fiume che travolge tutto con la sua forza. (p. 119)

E la protesta esterna rischia di sollecitare tumulti all’interno del carcere. Per questo le autorità rilasciano le donne, l’adolescente e il vecchio con i denti rotti.

È una mezza vittoria per i ribelli che vengono convinti, da sindacalisti e politici, ad accontentarsi.

E qui la diegesi del libro, fino a quel momento orientata sulle azioni di massa, si sgrana in episodi che potrebbero fare parte a sé stessi se non funzionasse di nuovo come agglutinante la figura del protagonista,  Paolo, figlio di un emigrato a Colonia e studente universitario a Torino dove stava tornando prima che scoppiasse il tumulto.

La figura lontana e rilevante del pater familias, la sua determinazione a sacrificarsi perché i figli abbiano un futuro migliore fuori della trafila umiliante dell’emigrazione in Germania, aleggiano diverse volte nelle parole della moglie o nelle lettere che il figlio studente si ritrova occasionalmente tra le mani (pp. 223-224).

Dicevamo delle parti che sono suscettibili di epica separata:  L’acqua, Karba e Rija, Le baracche svedesi, Lo sciopero a Reggio, La pistola, Il brigante Musolino.

Il recensore deve ascrivere a  proprio merito giovanile l’avere partecipato a lotte simili a quelle narrate, in mezzo ai giovani della generazione del ’68 che si chiamavano Leo Morabito ‘u Biferu e Rocco Falzea, Francesco Moio e ‘Ntoni Morabito ‘Mastrazzolu’, Gianni e Giuseppe Bruzzaniti, Rocco Palamara e i suoi fratelli: lotte studentesche e lotte a fianco delle raccoglitrici di gelsomino, lotte per l’occupazione o anche soltanto per far fermare ad Africo i treni accelerati.

Anche la stazione di Africo, che nel romanzo di Criaco appare come luogo di partenza per emigranti e scioperanti, fu il frutto di infinite lotte e di piccoli sabotaggi: ad esempio di tante tirature di freno di emergenza sui treni che erano così costretti a bloccarsi e a fare scendere i passeggeri; fino a quando le autorità e le Ferrovie furono costretti a prendere atto che la fermata degli accelerati ad Africo non era più rinviabile.

Nel romanzo sono presenti, sia pure al livello carsico, insegnamenti indiretti e informali che, a volte, si materializzano e si ritraggono con discrezione lasciando però il segno sule lettore:  1) nel capitoletto sullo sciopero a Reggio assistiamo ad una giornata di lotta con la quale gli africoti, alla fine, strappano al Prefetto vaghe promesse e si dispongono a ritornare mestamente a casa: ecco però che, quando meno te l’ aspetti, succede qualcosa di inaspettato:

 E’ già buio quando fanno ritorno alla stazione. Sono stanchi e affamati e i più piccoli sono allo stremo delle forze. Per fortuna, fra lo stupore generale, arrivano alcuni giovani con dei grandi sacchi di carta da fornaio, pieni di panini ancora caldi, farciti con la mortadella. Raccontano di alcuni compagni di Reggio che hanno fatto una colletta per comperare la mortadella mentre il pane lo ha offerto il panettiere che ha tanti amici tra i manifestanti. … Tutti a darci dentro a mangiare e a discutere, in piedi, seduti per terra, vicini, uniti, sognanti e stanchi, vagamente felici. Antonio riceve la sua pagnotta e, mentre assapora la mortadella e la mollica ancora calda, pensa che mai assaggerà del pane così buono e profumato. Il pane della lotta e della fratellanza che unisce i cuori e li concilia col mondo, vivi e forti, gioiosi e ribelli, seppure nella sconfitta (p. 164).   

 2) e, dopo aver assaggiato il pane della lotta e della fratellanza come fa Antonio, che ha trovato una pistola per strada (questo delle pistole ritrovate ad Africo era un motivo ricorrente nelle deposizioni dei giovani che venivano sorpresi a portare addosso armi senza giustificato motivo) e l’ha nascosta accuratamente, può continuare a convivere con quel mostro capace di dare la morte con una leggerissima pressione sul grilletto?

Sicché, dopo un falò notturno sulla spiaggia assieme ai coetanei, la getta a mare: un gesto di civiltà e di responsabilità maturato proprio in presenza delle lotte che danno coscienza dei diritti ed anche l’etica a chi combatte dalla parte giusta:

Era così che si diventava grandi? Con quell’affare infilato alla cintura? … Pensa a suo padre che sta svendendo la sua vita alla catena di montaggio della Ford. Gli viene in mente sua madre che mai al mondo avrebbe tollerato che suo figlio se ne andasse in giro armato. Antonio guarda ancora quell’oggetto strano per qualche attimo poi, con un gesto sprezzante, scaraventa con violenza la pistola sulla superficie calma del mare (p.194);

Nel romanzo di Criaco, e come potrebbe essere diversamente, c’è anche l’amore:  innocente e adolescenziale, inibito dalla morale corrente e perciò furtivo. La bravura dello scrittore consiste nel farlo covare sotto la cenere e nel farlo  esplodere nella poesia più pura e commovente.

Succede a quello tra Paolo e Nunzia che, rimasto nascosto agli occhi dei più, esplode platealmente nella degna ed emozionante chiusura del romanzo.

Il giovane è riuscito a completare le valige iniziate a fare e sospese a inizio del racconto (pp. 13-16) nonché a salire sul treno alla stazione del paese per tornare a riprendere gli interrotti studi torinesi; mentre metà del paese si sbraccia a salutare lui e gli altri emigrati che partono, ecco che gli si materializza il più dolce dei piano-sequenza da carrello frontale:

Spalanca gli occhi e lo stupore ha il potere di fermare i battiti del cuore. In mezzo a quella strada c’è Nunzia che sta correndo a tutta birra, con la sua gonna svolazzante e i capelli sciolti al vento. … Non ci crede, è un’illusione pensa, e quando lei arriva al binario, tutti i presenti le aprono il passaggio e c’è appena il tempo di sfiorare la mano, di ricambiare il sorriso, prima che cominci il primo giro si rotaie. È il groppo in gola che non ne vuole sapere di andarsene via, e la distanza rimpicciolisce  tutto fino all’arrivo di qualcosa di indefinito che ammanta ogni superficie … Paolo chiude gli occhi e rimane affacciato al finestrino per prendersi tutta l’aria. Il vento caldo che porta speranza e amore. (pp. 232-233).

Fuggevoli annotazioni sulla lingua di Criaco che è un italiano standard di buon livello, incastonato in un tessuto espressivo paratattico che scorre senza increspature e senza cadute.

Parsimonioso l’uso del dialetto calabro romanzo, usato per lo più con intenti sentenziosi e con la traduzione a seguire. L’autore ha evidentemente poca fiducia nel Muttersprache e nella sua comprensibilità al di fuori del contesto locale.