Ho amato molto Guareschi. I suoi don Camillo e Peppone, d’altra parte, li conoscevo quasi di persona. Mio padre e mio zio discutevano sempre, le voci si alzavano, l’una cercava di dominare l’altra, magari sembrava accendersi un alterco, poi prorompeva un’unica, doppia risata. Il comunista e il prete litigavano sulla politica e la pensavano allo stesso modo sulla famiglia, la morale, tanti fatti della vita.
Don Santo, mio zio prete, lo penso sempre legato a mio padre, a quel discorrere animato al tavolo della cucina che, della dialettica, mi ha insegnato più delle lezioni di filosofia. Oppure a mia nonna che, di tanto in tanto, mi portava con sé nelle sue visite a Cataforio o a mia madre, che anche lei saliva in quel paese quando c’era da preparare il pranzo per il vescovo in visita.
Cataforio, per me, è il profumo della salvia – mia madre lo utilizzava per l’arrosto – che respiravo passeggiando sotto la canonica, con in vista lo sprofondo della vallata del Sant’Agata: una visione di bellezza assoluta che, nella mia mente di ragazzina, richiamava l’idea di avventure e di pirati. Nella canonica, c’era una stanza colma di libri e, nel bagno, un catino in cui versare l’acqua dalla quartara. Il terrazzino era pieno di piante.
E Cataforio è, nel mio ricordo, la piazza davanti alla chiesa, dove, nelle sere di festa, si proiettava, su un grande lenzuolo – quasi una vela svolazzante sulla collina – un film e la chiesa piena zeppa di persone che, dopo la messa, si affollavano intorno a don Santo.
Don Santo è stato parroco di Cataforio per decenni, dopo esserlo stato, per qualche anno, di san Lorenzo. E c’erano sempre, intorno a lui, uomini e donne, anziani e bambini. E di Cataforio, della sua brava e bella gente parlava a casa mia. Dei vecchi legati alle tradizioni dei padri, dei giovani, così lavoratori e maturi, dei bambini che, a scuola, avevano lo stesso parroco come insegnante di religione. Parlava di ciascuno e di tutti con affetto paterno o partecipazione fraterna, di alcuni con devozione filiale. Il suo paese era la sua parrocchia, la sua comunità, la sua famiglia.
Primogenito di una famiglia contadina, don Santo aveva fin da piccolissimo deciso che avrebbe fatto il prete. Formatosi nella chiesa ancora tridentina, affrontò con entusiasmo le novità apportate dal Concilio. Fu il primo prete che vidi in clergyman. E ha continuato a studiare, a leggere volumi dei teologi più innovativi, di autori di spiritualità più moderna e libri di scrittori tutt’altro che cattolici. Gli piacque molto Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci. Uomo di stampo antico, non si è mai sottratto alle domande che la modernità via via poneva.
Anche da vecchio il suo tono di voce restò, come in gioventù, alto e le sue prediche, che iniziavano talvolta piano, rimbombavano via via nell’aria. Sembravano invettive, quando volevano essere solo messaggi d’amore. Non mi piaceva quell’alzarsi del tono, meno che mai al mio matrimonio, quando, però, ero troppo emozionata per ascoltarlo.
Ma non ho mai dubitato della sincerità e profondità della sua fede né della dedizione ai suoi parrocchiani. E, dopo la sua morte, leggendo per caso qualche suo appunto, scritto durante la malattia, ne ho potuto cogliere anche la profonda dimensione mistica.
Nella riunione del 16 novembre, il Consiglio Comunale di Reggio ha stabilito che la piazza di Cataforio porti il suo nome. Ne sono commossa. Per don Santo, prima di ogni cosa veniva Dio, ma dopo, proprio pochissimo dopo, veniva Cataforio.