Il volume, uscito per i tipi di Donzelli Editore nella primavera scorsa, contiene un CD con una elaborata e riuscita ricerca musicale di Francesca Prestia.
Dieci saggi - introdotti dallo storico Piero Bevilacqua - che dichiaratamente, sulla scia di un filone finalmente apertosi nella nostra regione, consolida una prospettiva nuova sulla Calabria (a torto considerata statica, arretrata, priva di passioni, lotte, sogni) che, nel migliore dei casi, ha come risultato il congelamento della topografia dal Pollino allo stretto di Messina condannando la regione ad una marginalità morale, oltreché territoriale, nella versione della storia d’Italia.
Dieci storie che “offrono uno spaccato vivo ed eloquente della Calabria novecentesca, scossa da plurisecolari conflitti sociali e solcata da movimenti e lotte dotati di una dirompente potenzialità trasformatrice” come si legge nella quarta di copertina.
Al libro è allegato un cd della cantastorie Francesca Prestia che, con la ormai riconosciuta potenza espressiva dell’artista, fa rivivere in musica ciascuno degli episodi narrati nel libro: dallo sciopero dei salinari di Lungro alla non comune interpretazione de I treni per Reggio Calabria di Giovanna Marini.
Se i pregi del libro derivano dunque dal suo carattere impegnato, lo stesso vale per i suoi difetti.
Con riferimento ai soli saggi che affrontano le lotte contadine in Calabria e che rappresentano i 4/10 del volume siamo di fronte ad un libro evenemenziale. Nel momento in cui cerca di addentrarsi nei processi di lungo periodo risulta arretrato nelle sue spiegazioni, conformista, con analisi che ritengo datate, frutto di un pensiero ideologico che ne fanno dunque una occasione mancata.
I risultati di questo approccio sono particolarmente visibili nell’introduzione che Bevilacqua dedica a questi capitoli.
Nel presentare la rivolta di Benestare del 1906 a pagina 7 dell’introduzione scrive:
“Nonostante, dunque, con i governi di Giolitti, a inizio del 1900, si fosse inaugurata una politica di limitazione della violenza dello Stato nei conflitti di lavoro […] in Calabria ancora nel 1906 polizia e carabinieri ricorrevano alle armi con criminale facilità di fronte al minimo segno di insubordinazione”.
A parte la circostanza che la polizia non ebbe alcun ruolo nelle stragi calabresi del periodo giolittiano, la precisa attribuzione della data del 1906 con l’avverbio di tempo a sottolinearlo, non lascia adito ad equivoci circa la lettura che viene data di un fenomeno isolato, come se quello del paese aspromontano fosse un episodio a se del periodo nel quadro di una avviata politica di limitazione della violenza.
Ora che ciò non sia vero per l’intero sud e per la Calabria in particolare è in primis rintracciabile nel numero e nella scansione temporale degli innumerevoli episodi culminati in stragi che precedono e seguono Benestare con Giolitti presidente del consiglio: nella sola nostra regione Firmo (1907); Olivadi (1908); Vallelonga (1909); Sinopoli (1909); Plataci (1909) per arrivare ad Aiello Calabro nel 1921, con una continuità impressionante e senza considerare le decine di altri episodi in cui i carabinieri sparano per rintuzzare le proteste della popolazione e lasciano a terra “solo” feriti.
Risulta oltremodo incomprensibile che Bevilacqua possa ignorare l’altra faccia della medaglia del giolittismo, quella diffusamente disvelata da Gaetano Salvemini che racconta e spiega, negli innumerevoli suoi scritti, come questa “istituzionalizzazione del conflitto” riguardi solo il nord. Da qui anche il suo distacco dal Partito socialista. Per i socialisti Giolitti è l’uomo delle aperture, colui che ha legalizzato la lotta politica, quella sindacale, colui che ha riconosciuto Psi e sindacati come interlocutori. Per questo Giolitti non si tocca, mentre per Salvemini sono quelli gli anni in cui si accentua la spaccatura tra nord e sud ed anche, aggiungo, il periodo in cui nasce l’irrisolta incomprensione del partito socialista verso le rivolte dei contadini della Calabria che si trascinerà ben oltre il secondo dopoguerra.
Basta leggere l’Avanti dell’epoca, il modo in cui presenta ogni volta i tumulti calabresi che terminano in eccidi; l’articolo di fondo del 1909 sempre sull’organo socialista dopo la strage di Vallelonga dell’allora direttore Leonida Bissolati; oppure l’inchiesta del deputato socialista biellese Rondani dopo la strage di Sinopoli, per capire il disprezzo neanche latente che, con poche eccezioni, contraddistingue le analisi dei socialisti dell’epoca sulle rivolte calabresi.
Salvemini denuncia il disinteresse del Psi verso i contadini del sud mentre protegge gli operai del nord e non guarda oltre e in alcune illuminanti pagine ricorda come i compagni socialisti del nord “… alle denunce delle infamie che si commettono tra noi, o non rispondevano, o si stringevano nella spalle e dicevano: «da noi il governo non fa così. La colpa non è di Giolitti, è colpa vostra».”
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Il saggio di Oscar Greco sulla rivolta di Benestare del 1906 inizia con l’inquadramento economico e sociale del paese ma incappa immediatamente in una topica evidente. Forse condizionato dalla romantica attribuzione di quella parte di costa calabrese come “costa dei gelsomini” scrive “… mentre le donne scendevano verso il mare, sulla costa dei gelsomini per unirsi alle tante donne le «gelsominaie» che coltivavano e raccoglievano questi fiori che costituivano una delle principali fonti di «ricchezza» della zona, per risalire solo a sera nel «paese di gesso»”.
Una immagine bucolica difficilmente realistica nel 1906 considerato che la cultura e la conseguente commercializzazione del gelsomino in quell’area calabrese, che non è una pianta autoctona, fece la sua prima apparizione solo verso la metà degli anni ’20 ed iniziò ad imporsi solo a partire dal 1928.
Ma ciò che non è condivisibile nel saggio di Greco è la sua tendenziosità sul piano metodologico.
L’autore lo presente come un episodio con “caratteristiche e originalità rispetto alle analoghe sollevazioni del periodo” per concludere che “quella di Benestare non è stata la «semplice e solita» rivolta contadina, ma l’esplosione di un malcontento popolare che aveva due obiettivi: la gestione clientelare e familistica del potere delle due fazioni che si contendevano l’amministrazione del Comune, con concessione di benefici secondo criteri di appartenenza, e la richiesta di estensione dell’assistenza medica gratuita a tutti i poveri del paese […] Una sorta di welfare ante litteram […]” (pag.48).
Ma questa è una affermazione buttata lì, a caso. Perché se si presenta una originalità occorre offrire gli elementi della restante convenzionalità che non può essere affidata ai soli aggettivi «semplice e solita» che, figurando tra virgolette, diventano oltretutto dubbi sul piano ontologico oltre a non spiegare assolutamente nulla.
In sostanza se non si ha un quadro di insieme non si possono offrire queste chiavi di lettura. Ed è evidente che l’autore non possiede questo quadro.
Perché altrimenti saprebbe che tutte le rivolte contadine del periodo giolittiano hanno come causa la gestione clientelare e familistica del potere comunale.
I municipi dell’epoca non sono il luogo delle democrazia e della rappresentanza, ma quello dell’intrigo, degli interessi e degli abusi i cui amministratori comunali sono eletti da poche decine di votanti in una regione in cui gli aventi diritto al voto sono complessivamente solo settantamila persone circa fino al 1912.
Il detonatore della rivolta può essere dissimile: la condotta medica piuttosto che la tassa sul focatico; la fondiaria piuttosto che gli aiuti post-terremoto; la tassazione indiscriminata per risollevare i bilanci comunali piuttosto che l’aumento delle tariffe daziarie. E’ il sistema tributario dei Comuni che ha tali margini di discrezionalità che i padroni dei Municipi hanno un'arma micidiale, da riversare sui contadini quasi tutto l’onere delle imposte. Tanto non votano!
Quanto ai clan familiari che si spartiscono la gestione dei Comuni è una caratteristica praticamente generale all’epoca. Se ne trova traccia anche dopo la strage di Vallelonga, in una interrogazione alla Camera, quando il deputato Fera afferma: “È vero che in Vallelonga vi sono due partiti (intende due famiglie ndr) che lottano: sale l'uno e scende l'altro […]”.
Infine, quanto alla presunta battaglia ante litteram sul welfare, quando ho studiato le stragi contadine in Calabria tra il 1906 e il 1925 confluite in Tumulti (Soveria Mannelli, 2020), mi sono chiesto perché uno dei due uccisi nella rivolta di Benestare non era del paese ma provenisse da Ciminà. Sembra, ma questa è una circostanza riferitami dell’ex sindaco di Benestare ed è pertanto l’unica fonte di cui dispongo non avendo approfondito, che qualche giorno prima anche a Ciminà vi era stata una manifestazione di protesta per lo stesso problema, quello per la condotta medica gratuita.
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Andando oltre i fatti di Benestare va detto che il giudizio sprezzante di “spontaneismo ribellistico” è stato usato a piene mani da storici anche contemporanei per definire tutti gli episodi di rivolte contadine dell’inizio del XX secolo in Calabria, come se questo fosse un concetto storiografico e non una lente deformante della ideologia politica. Una visione dei fatti presa a tenaglia tra la vecchia storiografia borghese che guarda alle rivolte di popolo come frutto dell’ignoranza, della stupidità di masse che si fanno guidare da mestatori – tesi sposata integralmente in tutte le sentenze giudiziarie sulle stragi calabresi che ho avuto modo di recuperare negli Archivi di Stato - e quella nascente del partito socialista che nega possa esserci lotta di classe perché ne è assente la coscienza, unico motore del cambiamento storico.
Una prospettiva che ha condizionato, come vedremo, persino l’analisi sui fatti del secondo dopoguerra.
Anche la strage di Casignana deve, in definitiva, la sua notorietà a Mario La Cava e al suo romanzo pubblicato nel 1974. E ne è talmente consapevole l’autore che fa dire nelle ultime due righe del romanzo al sopravvissuto all’eccidio. “Chi invece si sarebbe ricordato di lui e avrebbe rivissuto nel suo cuore l’episodio di Casignana?”
Da buon calabrese, lo scrittore bovalinese sapeva bene che le èlite guardavano a questi fatti ed ai loro protagonisti con lo snobismo supponente di chi addirittura arriva a considerarli nemici del progresso!
Del resto nella Storia della Calabria - Einaudi, (1985, Torino) di Casignana non esiste menzione mentre anche lo storico Ferdinando Cordova ancora nel 2003 nel suo Il fascismo nel Mezzogiorno: le Calabrie (2003, Soveria Mannelli) riduce il caso - guarda caso - al contrasto tra due famiglie e parla di “scontro a fuoco” che naturalmente presuppone che entrambi le parti usarono le armi!