Nei giorni scorsi, al Dipartimento di Fisica dell’Università di Roma La Sapienza, è stata ricordata Nella Mortara, una delle prime fisiche italiane, laureatasi nel 1916, figlia di quel giurista, Lodovico Mortara, che dieci anni prima aveva riconosciuto a dieci donne il diritto, poi cancellato dalla Cassazione, di iscrizione nelle liste elettorali, in un paese in cui il suffragio maschile sarebbe stato reso universale, senza condizioni di censo o alfabetismo, solamente alcuni anni dopo.
L’anima dell’iniziativa è stata Maria Grazia Betti, che ha anche presentato una ricostruzione della vita scientifica e della discriminazione di cui Nella Mortara fu oggetto. Infatti il convegno non era principalmente in omaggio al suo, comunque sottolineato, essere simbolo in campo scientifico dell’emancipazione femminile, ma motivato dall’essere stata Nella Mortara una degli oltre trecento, tra professori ordinari e liberi docenti, espulsi dall’Università il 16 ottobre del 1938 in applicazione delle leggi razziali del mese precedente, premonizione di quanto sarebbe accaduto lo stesso giorno cinque anni dopo. Simbolicamente, l’aula che le è stata dedicata non è nello storico edificio Marconi del Dipartimento, dove Nella Mortara lavorò, ma nel Fermi, adiacente all’Edificio di Matematica Guido Castelnuovo, nel quale l’eponimo ebbe l’umiliazione di non essere ammesso alla Biblioteca, per ordine di Francesco Severi, offerto a modello dei numerosi Licei che ne portano il nome.
Di recente Roma ha chiamato Largo Nella Mortara una piazza in una zona che permette ricordare che qualcuno aveva scritto circa cento anni fa: “se …. morissero tutti i Giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio?”.
L’onore toponomastico invece è purtroppo da condividere con colleghi universitari, come quel presidente dell’Accademia dei Lincei che accettò le dimissioni di Einstein da membro straniero dell’Accademia (gli italiani ne erano stati espulsi) con un gelido “prendo atto delle sue dimissioni” o, addirittura, in altri comuni di Italia, con i firmatari del Manifesto della Razza..
Riconoscimento tardivo? Forse, ma questo dà spunto a una doverosa riflessione. Il ritardo di Badoglio nell’abrogazione (parziale) delle leggi razziali, le resistenze al riconoscimento dei danni, emblematico il caso di un ministro che negò la restituzione di una licenza di tabaccheria perché avrebbe leso diritti acquisiti, le difficoltà nell’Università per il rientro accanto a colleghi che, come scrisse Nella Mortara a un professore che ebbi a Roma, Enrico Persico, in quegli anni, incontrandola, fingevano di non vederla, il “Non è successo niente”, detto esplicitamente da un impiegato a Carlo Tagliacozzo che riregistrava la libera docenza annullatagli, ma implicito nel permettere che Sabato Visco, uno dei prestigiosi firmatari del Manifesto, potesse essere preside della Facoltà di Scienze per un altro decennio dopo la guerra, sono indicazioni del ritardo con cui in Italia abbiamo cominciato a fare i conti con quel passato. E solamente cominciato, perché tuttora accadono cose inquietanti. Un esempio che corrobora quanto ho scritto: lo stato giuridico dei cittadini italiani libici era particolare.
Sudditi fino al 1919, poi ebbero diritto a una cittadinanza, non identica a quella metropolitana e in
realtà neanche a quella dei dodecannesini. Per questo motivo, alla morte (nel 2018) di una perseguitata ebrea nata in Libia, c’è stato qualche solerte funzionario che ha chiesto al vedovo il rimborso dell’assegno ricevuto in quanto la signora non era cittadina italiana metropolitana. Il provvedimento fu sospeso un anno fa dalla Corte dei Conti di Torino, ma ignoro, e confesso non mi sorprenderebbe, se altri funzionari non abbiano poi impugnato il provvedimento. Burocrazia cieca?
Forse, ma il caso, accaduto pochi giorni fa, delle due ragazze toscane, e uso di proposito la parola ragazze e non il diminutivo quasi assolutorio ragazzine, sarebbe un campanello d’allarme se non fosse che di campanelli d’allarme di questo genere ne suonano troppi e da troppo tempo.
Le manifestazioni del Giorno della Memoria favoriscono l’emergere di ricordi personali, nel mio caso, la deportazione della madre di un’amica di famiglia, la signora Clementina Sacerdoti, ricordata oggi da una pietra d’inciampo, l’imbarazzo in un viaggio aereo quando notai sul braccio del passeggero seduto accanto a me il numero tatuato, e avrei voluto manifestargli una solidarietà, per la quale non avevo le parole perché in nessun modo avrebbe potuto corrispondere alla sua esperienza, la conversazione in un viaggio transatlantico con il Premio Nobel di Fisica Georges Charpak, che ricordava come a Dachau, prigioniero in quanto resistente e fisicamente molto diverso dallo stereotipo ebreo secondo i nazisti, avesse dovuto aver cura di non mostrare la sua comprensione del tedesco, dovuta alla sua origine ebraica polacca, i racconti di due amiche colombiane di origine ungherese, Angy ed Eli Pallos, di come loro padre si fosse salvato durante una marcia della morte verso il Danubio, il racconto del viaggio dalla Polonia in Europa via Iran di un mio professore, Wolf
Gross, e quelli di tanti amici i cui genitori in circostanze diverse e uniche si erano salvati dallo sterminio. Tra questi ieri ho potuto ascoltare, e in parte riascoltare, i ricordi dell’esperienza di due amici-colleghi che in circostanze diverse si erano potuti salvare durante l’occupazione nazista a Roma.
Ricordare non è sufficiente.
La ricerca storica di quel periodo ha molto da approfondire e uno splendido esempio è la ricerca di come quegli eventi siano registrati negli archivi dell’Università di Roma. Il mio legame con la Repubblica Dominicana mi rimanda a un confronto tra due accadimenti della seconda settimana di luglio del 1938. In Italia, il Manifesto della Razza, ad Evian l’offerta dominicana di ricevere decine di migliaia di rifugiati ebrei dall’Europa Orientale, quando tutte le altre porte erano chiuse. “One is too much”, disse il rappresentante canadese, “In Australia non abbiamo un problema razziale, perché dovremmo importarlo?”
La storia dell’offerta dominicana, che si concretizzò in 5000 visti e un migliaio di persone che effettivamente vi permasero, è nota solamente superficialmente, e spiegata con argomenti di política interna della dittatura di Trujillo che meriterebbero una ricerca più approfondita negli archivi dominicani. Tuttavia sarebbe anche interessante sapere come in Italia sia stata seguita la Conferenza di Evian. Certo le premesse per il Manifesto esistevano, la campagna antisemita era in atto da tempo, la velina diplomatica che ne gettava le basi fu di febbraio, la visita di Hitler che forse le favorì, ma che certamente ha fornito un alibi coerente con “Italiani brava gente” fu a maggio. Eppure, come l’insuccesso di Evian fu per il Reich la prova che degli ebrei non
interessasse a nessuno, parrebbe ipotesi ragionevole che l’insuccesso annunciato della Conferenza possa aver contribuito a determinare il momento della pubblicazione del Manifesto.
Perché ricordare non è sufficiente?
La risposta data da un amico e collega, Paolo Camiz, che visse quel periodo è chiara e netta: “non solo chi è stato testimone di certi eventi ha il dovere di raccontarli, ma anche chi ha avuto la fortuna di nascere dopo ha il dovere di stimolarne il racconto, in modo da poterli a sua volta tramandare ”.
In Italia la legge 211 del 20 luglio 2011 (altra coincidenza, anniversario del fallito attentato a Hitler) senza imporlo, AFFERMA che si organizzano attività nelle scuole di ogni ordine e grado. Durante molti anni l’Università della Calabria lo ha fatto, con le manifestazioni del Giorno della Memoria, con i viaggi di studio di studenti in Israele, con l’organizzazione di corsi dedicati, le visite al campo di Tarsia Ferramonti, con iniziative per bambini delle maestre del Polo didattico. L’importanza di queste attività è stata riconosciuta dalla Regione Calabria. Ricordo le scolaresche di alcuni di quegli anni presenti nell’Aula Magna, le massime autorità dell’Università presenti.
Negli ultimi anni? Si visiti il sito web dell’Università. Quest’anno due manifestazioni, merito di Carlo Spartaco Capogreco e col patrocinio di un dipartimento, ma in sedi non universitarie e, in un caso, fuori regione. Le altre università calabresi? nulla. A livello politico, un’iniziativa simbolica a Reggio Calabria e un twit delpresidente della Regione.
Il Web ha memoria. Il menzionato confronto col passato e l’attuale con le altre realtà italiane è impietoso. La deriva verso quell’INDIFFERENZA che nel messaggio della senatrice Segre per l’evento su Nella Mortara è stata ricordata come la caratteristica più frequente (per carità di patria taciamo le meno frequenti) della reazione del popolo italiano alla legge razziali, e che è ricordata al binario 21 di Milano deve essere interrotta. Lo si deve agli studenti calabresi, lo si deve agli studenti internazionali che spesso provengono proprio da paesi verso cui pregiudizi razzisti sono particolarmente forti.