IL RICORDO. Francesco Tassone, i «Quaderni Calabresi» e la mafia (parte 1)

IL RICORDO. Francesco Tassone, i «Quaderni Calabresi» e la mafia (parte 1)

tassone

Lo scorso sei febbraio la telefonata di un comune amico mi ha comunicato la morte di Francesco Tassone.
L'avevo conosciuto nel 1970, a Vibo dove andai a trovarlo in autostop; spostarsi chiedendo passaggi allora era di moda, soprattutto per chi non disponeva di denaro adeguato ai viaggi che voleva fare. Lui, prima di diventare magistrato del Tribunale di Vibo, era stato giudice a Crotone e pretore a Melito Porto Salvo, dove aveva lasciato un buon ricordo e adeguate amicizie; tra i suoi amici c'era l'avvocato Antonino Laganà e suo figlio Francesco, che era stato mio compagno di liceo e che è morto troppo presto qualche anno fa.

Nel 1964 Tassone aveva fondato la rivista «Quaderni calabresi», dalla stentata periodicità semestrale; in sei anni ne erano usciti 14 numeri, alcuni dei quali erano doppi; insomma poco più di un numero l'anno.
Nella redazione del periodico, assieme a Francesco Tassone figuravano Ernesto Tassone (classe 1905) anche Nicola Zitara, Michele Garrì e Cesare Tedeschi; nello stesso periodo il medesimo gruppo di persone fondò il circolo culturale intitolato a Gaetano Salvemini e i «Quaderni Calabresi» divennero «Rivista politico-culturale del Circolo». Nel 1970 la rivista ebbe necessità di un direttore che fosse anche giornalista professionista e, a partire dal numero 13-14 venne firmata da Marco Pannella; una nota redazionale esprimeva la gratitudine chiarendo «… al lettore che la nostra linea culturale e politica non impegna per nulla le posizioni ideologiche e politiche di Marco Pannella, così come le sue posizioni politiche non impegnano in alcun modo la linea della rivista.»    

Il gruppo ebbe una accelerazione di attività all'uscita del numero dei «Quaderni» di Dicembre 1966 in cui apparve un articolo su «La mafia a Vibo Valentia». Vi si ponevano interrogativi sulla acquiescenza dell'amministrazione comunale della città verso le attività di un gruppo mafioso che si era insediato nelle attività economiche di Vibo Marina, in particolare nel settore della distribuzione dei carburanti. 
L'articolo provocò una denuncia del Sindaco di Vibo, poi diventato senatore democristiano, l'avvocato Antonino Murmura. Il processo, dato che uno degli imputati era giudice del tribunale di Vibo, venne spostato a Locri e si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati il 10 febbraio 1970.

Nel pubblicare la sentenza di assoluzione, nel numero 13-14  della rivista,  Francesco Tassone precisa che l'articolo incriminato «risponde a un tipo di azione che il Circolo e i Quaderni ritengono ormai superato … la collusione tra classe politica e mafia è la naturale estrinsecazione del fatto che sono l'una e l'altra centri di potere ed hanno, …, la stessa natura parassitaria, Vivono entrambe con il sottogoverno, con l'elettoralismo, con la corruzione, con la minaccia, con il ricatto, sulle spalle della gente che lavora ... noi la lotta alla mafia la continueremo; ma con la consapevolezza e nel più generale ambito di una lotta popolare per una diversa gestione del potere» (pp. 114-115).

Negli anni successivi, questo impegno di lotta alla mafia si sarebbe trasformato in una considerazione più complessa e più articolata del fenomeno e dei suoi intrecci con le questioni più rilevanti del sottosviluppo meridionale.

Il documento di questa complessità interpretativa fu il numero speciale della rivista n. 42-43 (novembre 1977) dedicato a mafia stato sottosviluppo.
Ne trascriviamo le conclusioni dell'editoriale di Francesco Tassone.
«… la mafia è problema dominante ma in quanto tragica espressione di una più profonda disgregazione in cui si bruciano le migliori energie. L'esercito dei latitanti assediato sull'Aspromonte insieme ai pastori, ai familiari, a migliaia di persone, rientra in questo quadro. Oltre lo schermo della scienza criminale, nella realtà dei fatti uno stretto legame unisce il latitante e l'emigrante, l'uno e l'altro banditi da un dramma collettivo. In questo senso la mafia ci appartiene, è il nostro problema».