“Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte”, questo l’amaro incipit con cui Corrado Alvaro ci conduce per una terra bruciata dal sole ma anche annegata dagli impetuosi torrenti che scavano tra quelle rughe di terra dove pastori avviluppati nelle loro mantelline ricordano dei pellegrini, invernali, tanto simili a un dio greco.
Terra sacra, dove il Tempo corre perennemente intorno a sé stesso contenendo opposti estremi, caldo africano e aspro freddo e dove la festa arriva raramente e solo se qualche stupido castrato di un altro gregge rimane isolato, per cui persino la festa, una improvvisa e fugace cuccagna, una momentanea, illusoria abbondanza nascono sempre e solo da una ingiustizia, da una ferina sopraffazione. Qui i bambini tentano la buona sorte con gli aliossi, gli ossicini degli agnelli a forma di dado, o “giocano alla processione” guidati dal Pretino Mezzatesta che negli anni a venire perderà la sua vocazione religiosa tra accidia, ozio, scirocco, invidia. I bambini del paese si muovono in un’area immune dalle differenze sociali, i Mezzatesta giocano infatti con Antonello, il pastorello, e tutti, indifferentemente, vestono di stracci; è come se l’ingiustizia sociale non abbia fretta alcuna di raggiungerli e separarli o forse tali forze divisive sono iscritte talmente nel profondo di quel tessuto sociale da non necessitare di alcun segno esteriore. D’ altronde, il tempo della storia in quel mondo non esiste, lì non c’è fretta alcuna, mai…
La San Luca di Alvaro è un luogo sospeso tra la magia di cui è capace l’infanzia e la crudissima realtà di un meridione indifferente a vicende sempre subite, mai prodotte. In questo paese “caldo e denso come una mandra” la Magna Grecia si confonde con un Cristianesimo che trova sì nel Santuario il suo centro, in mezzo a “cani arrabbiati, vendicatori, devoti e latitanti”, ma dove ogni luogo, albero possono suggerire ierofanie pagane.
Questo è lo scenario in cui Argirò, contadino, lo Zuccone, cerca il suo riscatto e lo fa attraverso i figli Antonello e Benedetto. Benedetto viene al mondo dopo due fratelli muti, e per il padre è un predestinato. Benedetto quindi, grazie alla parola riscatterà i muti che fuor di metafora sono gli ignoranti, coloro che non sanno né possono difendersi. Farà il sacerdote, Benedetto, mentre Antonello andrà in città a lavorare provvedendo al suo mantenimento. La vedranno, i signori del luogo, i Mezzatesta, quando l’Argirò, lo Zuccone, avrà avuto il suo momento di giustizia e Benedetto parlerà, perdio, per sé e per tutta la sua famiglia, per tutti i diseredati.
Benedetto, obbligato a un destino di prete “sociale” ante litteram, sacerdote impegnato nel riscatto dei poveri non tanto in un aldilà, ma nell’ al di qua che è poi l’inferno dei vivi e lì, finalmente si compirà una storia collettiva. E Benedetto avrà grazie ai sacrifici di Antonello quel sostegno che lo farà diventare uno le cui parole cadranno come macigni sulle ingiustizie. Due fratelli, una mente che guarda al cielo e un braccio secolare, rispettivamente Benedetto e Antonello. Essi trarranno chi non sa, chi non può parlare, dalla atavica afasia metaforicamente rappresentata nel racconto dai fratelli “mutoli” la cui condizione riflette quella di una non comunità, dove la famiglia, che si parli o meno, è in realtà l’unico vero riferimento.
E Argirò, lo Zuccone, gira, batte palmo a palmo tutti i villaggi, i casolari del circondario e vende di tutto e si fa il passo lungo, regolare del viandante. Ormai parla per sentenze, per proverbi, con a fianco una mula carica di modeste mercanzie ma non del suo peso; la mula deve campare il più a lungo possibile, va risparmiata. E invece la mula brucia e quel remoto rito officiato evocante una processione dove Cristo e un senso panico di natura si conciliavano nella magica sensibilità dei bambini diventerà parodia oscena: il Pretino, i suoi fratelli, i Mezzatesta, ormai persi nell’accidia, nell’ ozio, nell’ invidia, inscenano la parodia del funerale della mula, salmodiando per il paese. Essi sono cresciuti senza diventare uomini e Benedetto dovrà lasciare il seminario e diventerà Santo senza Chiesa, quindi senza potere, senza alcuna possibilità di cambiare, di incidere la storia. Antonello, per vendetta divenuto incendiario dei boschi dei Mezzatesta, da brigante entrerà invece nella storia, ma come “errore”, “sbaglio”, e alla fine attenderà l’arrivo della giustizia da quel Moloch inintelligibile per lui, chiamato Stato. Nessuna giustizia riparatrice, per Antonello, ma quella arcigna, retributiva, completamente sorda alle sue ragioni.
Finisce qui la novella più importante di “Gente in Aspromonte”. Gli anni a venire porteranno in quei luoghi quella irreparabile mutazione antropologica di cui parlava Pasolini, tanto più stridente in quanto afferente a un popolo risparmiato dalle trasformazioni della storia per più di due millenni e mezzo, giunto ad affacciarsi alle porte del terzo millennio, feroce, pagano, innocente, distrutto poi dalla modernità: la discendenza di Antonello verrà travolta da una Storia aliena, e si adeguerà per non estinguersi, portando nella modernità un familismo feroce, tribale secolarizzato, incattivito dalle sirene e dalle seduzioni della società dei consumi.