LA RECENSIONE. Il custode delle parole, Gioacchino Criaco, Feltrinelli

LA RECENSIONE. Il custode delle parole, Gioacchino Criaco, Feltrinelli

criaco«Il destino non esiste se tu sai essere la tua storia. E adesso lo so chi sono: sono Andrìa Amèroto della stirpe dei piciari che chiedevano la pece ai pini larici rivestiti della grazia divina, nipote di Andrìa Amèroto che da solo era tutto un esercito di liberazione, figlio del libeccio berbero e dell’Asprovunì, la Grande madre bianca.»

La svolta, nella vita del giovane Andrìa – un ragazzo dolce, alto, dalla pelle scura, con i capelli a boccoli e gli occhi verdi – avviene quando si ritrova a salvare, nel mare di Calabria, un immigrato libico, Yidir, appena arrivato su un barcone e incapace di nuotare. Come ha fatto altre volte, porta il giovane immigrato, che molto gli somiglia, a casa perché la madre e la nonna gli diano da mangiare e da vestire prima di lasciarlo al suo destino. Ma il nonno, che ha un numeroso gregge di pecore e capre, offre a Yidir di tenerlo al lavoro con sé. Andrìa, fino al quel momento, non ha voluto né seguire il nonno nella sua attività né lasciare la sua terra come hanno fatto anche le sue sorelle. Innamorato perso di Caterina – che in Calabria ha seguito i genitori, rientrati dopo anni di emigrazione in Alsazia, e nella terra dei padri vuole vivere e lavorare – si è quasi rassegnato a un lavoro fatto di «otto ore quotidiane dentro un call center a rispondere a nugoli di clienti insoddisfatti del prodotto di turno». Ma il legame che si crea tra il nonno e Yidir, l’affetto pieno di empatia e stima che Caterina ha nei confronti del nonno, e la chiusura del call center portano Andrìa in montagna, nel luogo dove il nonno si trasferisce in estate, con tutto il suo gregge. Munge, fa la ricotta, accompagna al pascolo, scoprendo che quello che aveva appreso nell’infanzia non solo gli riesce ma lo fa stare bene e, insieme a Caterina, prenderà decisioni che lo porteranno prima lontano, per farlo tornare, poi, con una nuova consapevolezza di sé, nella sua terra.

Con Il custode di parole di Gioacchino Criaco, appena edito da Feltrinelli, l’Aspromonte, la «Grande madre bianca», a quasi cento anni dalla pubblicazione di Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro, torna felicemente protagonista della letteratura italiana. Della letteratura e non semplicemente della narrativa.

È un libro traboccante di passione, Il custode delle parole, eppure misurato, pieno di metafore ma non barocco, permeato di elementi favolistici senza rinunciare a raccontare fatti di attualità, innestato di miti ma contemporaneo, con una visione ideologica precisa che può non convincere ma non inficia anzi accresce l’interesse per la trama. Notevole lo stile, lirico tanto che, in alcuni passaggi, la prosa è, in realtà, pura poesia, e capace di modularsi più variatamente per accompagnare i passaggi di più accentuata quotidianità e per integrare nella narrazione eventi come gli incendi boschivi della scorsa estate. Vi si avverte la sedimentazione, oltre che di molta narrativa mondiale, sudamericana in particolare, della grande lezione di Alvaro e di Strati, vivificata anche dal ritmo musicale di un vissuto grecanico.

Romanzo di formazione, dalla trama coinvolgente che lega il mitico passato con il presente, l’emigrazione dalla Calabria con l’immigrazione in Calabria, i mali storici e le speranze del futuro, il romanzo di Criaco presenta personaggi molto ben tratteggiati, tra i quali brillano non solo il nonno, ma anche le donne, soprattutto Caterina, forte, allegra, vitale, trascinante, un po’ la personificazione della bellezza della Calabria – una Persefone che rende luminoso anche l’Ade – forse la donna più luminosa e moderna della narrativa calabrese. Caterina è l’espressione di una forza antica ma che si esprime nelle forme e nei modi della contemporaneità: è una calabrese del ventunesimo secolo, come il giovane Andrìa è un uomo del ventunesimo secolo e lo stesso nonno, quercia ancestrale, pur con tutto la sua carica “ribellistica” (che in qualche modo richiama Hobsbawn), è ben lontano dall’Antonello alvariano. Ma Il custode delle parole è, soprattutto, un canto per l’Aspromonte: «Questa terra, l’Aspromonte, sa d’Oriente e d’Africa insieme, un profumo che ha intriso la carne, ed è inutile che la scuoino, il suo odore resterà per sempre, dovessero scarnificarla fino al centro del pianeta: anche lì sentirebbero nelle narici l’aroma selvaggio di un corpo che non s’arrende, che coverà guerra fino a quando una sola delle nostre parole resisterà. Il Sud è seme racchiuso nell’ambra primordiale, in grado di germogliare a distanza di milioni di anni. Si rassegnino le cavallette, prima o poi arriverà qualcuno a fare l’impresa memorabile. A ristabilire un’armonia generata dal cielo.»

Ed è un canto per le parole che racchiudono l’anima di un popolo, per il grecanico, fortunatamente ripreso, negli ultimi anni, nell’area della Bovesìa: « “Egò gapào, io dico così a nonna, e so di dirle che sono perso in lei, e lei sa che le sto dando le chiavi della mia vita e il potere di annientarla in qualunque momento. Non glielo potrei dire con un ti vogghiu beni, e neppure con un ti amo. (…) Le nostre parole sono nate nelle gole di ognuno dei popoli che è arrivato in questo rifugio degli dèi, devono raccontare il passato, farci vivere il presente e darci ali di drago per raggiungere il futuro.»

*Gioacchino Criaco Il custode delle parole, Feltrinelli, pp.176, euro 16,15