In quello stesso anno, in 105 Comuni della Calabria Citra (corrispondente approssimativamente alla provincia di Cosenza), secondo la normativa che dava loro questo compito, con i relativi costi economici, furono avviate 96 scuole elementari pubbliche maschili, con 87 maestri e 1649 allievi e 49 scuole elementari pubbliche femminili con 35 maestre e 999 allieve.
Nella Calabria Ultra II (corrispondente approssimativamente alle province di Catanzaro e l’attuale Vibo), 131 comuni
diedero vita a 101 scuole elementari pubbliche maschili, con 103 maestri e 1826 allievi e a 79 scuole elementari pubbliche femminili con 70 maestre e 1778 allieve.
La Calabria Ultra I (corrispondente approssimativamente all’attuale città metropolitana di Reggio) avviò, in 52 comuni, 47 scuole elementari pubbliche maschili con 39 maestri e 911 allievi e 30 scuole elementari pubbliche femminili con 20 maestre e 832 allieve. A questi dati vanno aggiunti, nelle scuole elementari private 92 allievi e 13 allieve nella Calabria Citra, 34 allievi e 41 allieve nella Calabria Ultra II e 92 allievi e 13 allieve nella Calabria Ultra I.
Si tratta del primo ingresso “di massa”, sebbene relativamente, nella “scuola di base” per i calabresi.
Negli ultimi anni del regno borbonico erano state emesse normative in tal senso, ma non sembra che
esse siano effettivamente entrate in vigore.
L’apprendimento era “essenziale”. L’elenco delle materie del biennio obbligatorio era costituito, per i maschi, da: 1) Leggere e scrivere; 2) Aritmetica elementare; 3) Sistema metrico; 4) Lingua italiana; 5) Insegnamento religioso. Per le bambine, si aggiungeva (o, almeno in alcune zone e situazioni, si sostituiva con?): 6) Lavori donneschi.
Chi erano quei primi bambini e bambini che hanno, in Calabria, affrontato la scuola? Erano figli di artigiani, di agricoltori, di piccoli commercianti? I ricchi continuavano a frequentare collegi privati, magari fuori regione? Erano, di certo, numericamente pochi, relativamente ad altre parti del paese, ma già sembra eccezionale che alcune famiglie povere e non istruite, nelle quali i bambini avevano una loro specifica funzione economica in quanto lavoratori a tempo pieno (per esempio in agricoltura, soprattutto in particolari lavori stagionali), accettassero di far frequentare ai figli e, soprattutto, alle figlie, qualcosa che poteva apparire un “perditempo inutile” e, magari, “immorale” in quanto potenzialmente sovvertitore delle “tradizioni”.
Ho conosciuto nonni e prozii nati, nel reggino, nell’ultimo decennio dell’Ottocento (quando, tra l’altro, con la legge Coppino (1877), l’obbligo era stato portato a tre anni: dal compimento dei sei anni, come già prima, ai nove): uno solo aveva fatto tutti i tre anni, alcuni a scuola non c’erano mai stati, una nonna aveva frequentato due anni, un’altra poco più di quindici giorni giacché il padre pensava che una scolarizzazione “eccessiva” l’avrebbe messa in condizione, da grande, di poter scrivere al (futuro) fidanzato: pericolo da evitare. Quando li ho conosciuti io, riuscivano tutti/e, comunque, a leggere e anche a scrivere (per esempio ai parenti lontani).
Chi erano i primi maestri e maestre? Solo per comodità, non per corrispondenza alla realtà, ho, nelle righe precedenti, suddiviso maestri alle prese con allievi e maestre alle prese con allieve. All’inizio, sono state utilizzate persone magari acculturate ma senza titolo specifico o, anche, ben poco acculturate. Preti, sicuramente; artigiani, che continuarono a svolgere anche il loro mestiere, giacché il salario di maestro era particolarmente basso; donne, anche pressoché analfabete, che dessero garanzia di difendere la “virtù” delle bambine.
Scrive Luca Serianni: «Un problema centrale nella scuola postunitaria è il reclutamento e il trattamento economico degli insegnanti. Netta era la distinzione tra insegnanti elementari e professori. Mentre i professori erano a tutti gli effetti impiegati civili dello Stato, nominati a seguito di un concorso e poi fruitori di un trattamento di quiescenza, i primi costituivano un gruppo poco qualificato, con reddito modesto e incerto e con scarso prestigio sociale. I maestri erano assunti con una “patente d’idoneità”, conseguita attraverso un esame (ma erano ammesse deroghe), e un “attestato di moralità”, revocabile; la nomina era decisa dal comune per un tempo pattuito, e molti comuni agricoli e
montani investivano malvolentieri nell’istruzione, sia per le limitate risorse sia per la diffusa ostilità o indifferenza delle famiglie, che dovevano rinunciare al lavoro di bambini e adolescenti, particolarmente sfruttati in certi periodi dell’anno (mietitura, raccolta delle olive ecc.).
In proposito Carlo Matteucci, presidente del Consiglio superiore dell’istruzione e incaricato di redigere una relazione sui risultati di una grande inchiesta “sullo stato di ciascuna parte dell’istruzione del Regno” (1864), dispose che alcuni comuni economicamente deboli potessero attribuire stipendi inferiori al minimo.»
E ancora: «Il reclutamento dei maestri, soprattutto nei primi anni dopo l’Unità, era incontrollato: alcuni erano assunti solo in quanto “reduci dalle patrie battaglie”; molti erano “clienti del sindaco o dell’assessore, più o meno alfabeti, che al massimo avevano frequentato corsi d’emergenza di pochi mesi” (Bonetta 1990, p. 62); spesso per vivere i maestri svolgevano un secondo mestiere, anche umile (sarti, sacrestani, calzolai). La forte sperequazione di stipendio tra uomini e donne, a vantaggio dei primi, non impedì che il numero delle maestre crescesse rapidamente fino a raggiungere il doppio dei maschi nel 1901: uno squilibrio ben visto dalle autorità, che confidavano più nelle donne come depositarie dei valori tradizionali e immuni da possibili contaminazioni ideologiche in senso democratico e progressista.
Significativo il fatto che nel 1882 si aprissero a Firenze e a Roma degli istituti di Magistero per maestre che volessero accedere all’insegnamento medio o professionale, mentre gli uomini avrebbero goduto di questo diritto solo nel 1923. Ragioni analoghe spiegano, in un quadro di forte impronta anticlericale, la tolleranza verso le congregazioni
femminili religiose, i cosiddetti conservatori, ritenuti meno pericolosi dal punto di vista ideologico: in essi le fanciulle aristocratiche e borghesi ricevevano, oltre all’educazione morale e religiosa, un’istruzione orientata alla futura vita familiare (lavori donneschi), con poche cognizioni culturali, al punto che, se tutte imparavano a leggere, solo poche erano in grado di scrivere: una pratica considerata superflua se non dannosa.»
I tre mesi di corso sufficienti nel 1861 per diventare maestre – condizione necessaria: avere 15 anni, anche senza avere in precedenza frequentato la scuola – divennero poi sei e, negli anni successivi, tre anni di Scuola Normale Femminile, l’antesignana di quello che, in anni successivi, diventerà “il Magistrale”.
A Reggio Calabria venne istituita la Regia Scuola Normale Femminile “T. Gulli”, poi, diventata nel 1923, Regio Istituto Magistrale solo nel 1909 (quasi mezzo secolo dopo la legge Casati e più di trenta dopo la legge Coppino): finanziata dal Comitato lombardo in seguito all’emozione suscitata, anche nel consiglio comunale di Milano, dalla catastrofe del terremoto. Non so chi siano state le prime maestre “diplomate” del reggino. Mi piacerebbe che le loro storie
fossero sottratte all’oblio e restituite al ricordo della città, nel cui difficile, lento, processo di crescita hanno avuto un ruolo importante.
Alla Scuola Normale Femminile dedicò un racconto, inserito ne Il romanzo della fanciulla, pubblicato nel 1886, Matilde Serao. Racconto ambientato a Napoli, facilmente scaricabile, gratuitamente, da internet dove si trova anche un’interessante tesi di laurea che ne tratta approfonditamente. Scritta con mano d’autrice – attenta, nella coralità della narrazione, a definire, con pochi tratti, caratteri emozioni, destini di ciascuna ragazza – e occhio di giornalista capace di analisi e denuncia sociale, Scuola Normale Femminile è, anche, un documento prezioso sulla “scuola per diventare maestre” degli albori del nostro sistema educativo nazionale. Ne emerge la quotidianità di “esterne” e “convittrici”, accumunate da una certa povertà di mezzi e, spesso, anche di affetti. Si segue lo studio, fortemente mnemonico, delle dodici materie previste “aritmetica, grammatica e lingua italiana, scienze fisiche, e naturali, storia, geografia, geometria piana e solida, morale, religione, disegno lineare, pedagogia, lingua francese, calligrafia e lavori donneschi.”
Si vedono all’opera direttori “burocrati” e “ispettrici” bacchettone e insegnanti ben poco preparati e per nulla empatici, anzi sprezzanti delle allieve, pronti a mettere una serie di “zero” sul registro delle interrogazioni o a sostenere, da insegnanti di pedagogia, l’assoluta “inutilità” della loro disciplina. E, soprattutto, l’estrema difficoltà del “dopo diploma”, gli stenti e le privazioni cui sono sottoposte soprattutto le maestre che vanno a insegnare in zone rurali o in montagna. Delle trenta e più ragazze di cui la Serao cita i nomi, due sole emergono nell’innovazione didattica: la prima esasperando i metodi punitivi, la seconda, al contrario, elimina tutte le misure punitive, semplifica il metodo di sillabazione e modifica, in meglio, l’insegnamento della geografia.
Sarebbe troppo chiedere alla Rai – che manda in tv un bel po’ di serie napoletane (troppe?) – di trarre una, o un docufilm, o qualunque cosa un buon comunicatore ritenga utile da questo racconto della Serao?
Dati ripresi da Anna Gargano Maestri e scuola elementare nel Mezzogiorno durante la crisi dell’Unificazione in Archivio storico delle province napoletane, 2012.
I brani di Luca Serianni sono tratti da Luca Serianni La lingua e la scuola – L’Unificazione, Treccani 2011.
Le notizie dell’Istituto T. Gullì sono tratte da Cento anni 1910-2010 –Storia e storie – Le radici del futuro