edito da Città del Sole, arriva in libreria Il giglio, la spada e la mano di pietra –Antonia Alberti e lastrage di Pentidattilo di Giuseppe F. Macrì e Carmine Laganà, edito da Laruffa. Segno che lasanguinosa vicenda di ferocia e passione che sconvolse uno dei più suggestivi borghi calabresi – che già aveva attirato l’attenzione, tra gli altri, di Giuseppe Galasso e Vito Teti – continua a ispiraregli scrittori, chiedendo loro di “essere narrato”, ancora.
La vicenda è ampiamente nota. Si tratta della strage degli Alberti, signori di Pentidattilo, perpetrata,la notte di Pasqua del 1686, da parte di Bernardino Abenavoli del Franco, feudatario del limitrofoMontebello, che si vendica così della gravissima offesa ricevuta. Promesso sposo della bellissimaAntonia Alberti, Bernardino non tollera l’onta del nuovo fidanzamento di Antonia con PetrilloCortès, fratello di Lucia, la recente moglie di Lorenzo, nuovo padrone di Pentidattilo, e non esita non solo ad uccidere Lorenzo e quasi tutti i suoi familiari, ma anche a stuprare Antonia prima di sposarla con un matrimonio farsa.
La particolarità del libro di Macrì e Laganà – come loro stessi rilevano nell’introduzione – derivadal «rintracciamento, da parte degli Autori di questo libro, dell’intero Archivio della famigliaAlberti, e, soprattutto, di un cospicuo numero di dispacci originali intercorsi fra la capitale delregno, Napoli, e Reggio Calabria, nei giorni della tragedia». Documenti – alcuni riportati a conclusione del testo – che consentono «una ricostruzione dei fatti molto più vicina al vero che negli altri, numerosi, scritti sulla vicenda. In particolare, una nuova e più veritiera luce riconfigura non solo la cronologia degli avvenimenti, ma finanche caratteri, vizi e virtù non solo dei protagonisti, ma dell’intero intorno storico.»
Ne deriva un’interessante rivisitazione delle relazioni tra la piccola nobiltà calabrese e i dignitari che vivono a Napoli, capitale del vicereame, dei rapporti tra nobili e tra questi e i contadini “sudditi”, i traffici economici, legali o meno, gli usi e costumi di una terra ancora imbevuta di tradizioni bizantine (molto bella, per esempio, la ricostruzione dei riti della Settimana Santa o Settimana Grande), l’arretratezza sociale, le difficili comunicazioni via terra, sostituite dalla navigazione tra la parte nord e quella sud di Reggio, il pesante discrimine tra uomini e donne: tenute, anche le più ricche e, magari, trattate in famiglia con affetto, in condizioni di subordinazione forte tanto che anche imparare a leggere viene considerata una “colpa grave” che può minare l’ordine costituito.
Sarebbe stato un libro ancora più interessante se l’accuratezza della ricostruzione storica si fosse estesa anche al linguaggio, che risente di termini – da “autostima”, a “relazione sentimentale”, alle donne “madonne o di malaffare” giusto per citarne qualcuno – poco ipotizzabili nel linguaggio seicentesco e non solo in Calabria. Resta – di contro alla violenza arcaica di Bernardino, alla vigliaccheria di Petrillo, all’egoismo di Agnese Cortès, alla debolezza del pur gentile Lorenzo, al doppio gioco di Scrufari –l’anelito femminista ante litteram di Antonia, il suo desiderio di essere “autonoma”, di poter decidere di se stessa, per lo meno dei suoi sentimenti e del suo cuore. E la dignità con cui affronta il suo destino,
ottenendo, prima della morte, un piccolo, grande, segno di liberazione.
*Giuseppe Macrì Carmelo Laganà Il giglio, la spada e la mano di pietra –Antonia Alberti e la strage di Pentidattilo, Laruffa editore, pp.337.